I musei della musica come dimensione dell’apprendimento

È opinione diffusa che i musei custodiscano un patrimonio da sfruttare e valorizzare, in termini di sviluppo e occupazione non meno che di benessere per i cittadini. Basti pensare all’indotto – la questione è al tempo stesso economica e culturale – attivato dai grandi musei, come gli Uffizi di Firenze o la Galleria Borghese di Roma, che con le loro collezioni attirano ogni anno centinaia di migliaia di visitatori.

Non tutti i musei presentano però le medesime caratteristiche. A differenza delle grandi collezioni di pittura e scultura, che esibiscono in modo diretto l’oggetto della propria arte (dipinti, statue, ecc.), i musei della musica operano in absentia. Essi non espongono cioè la musica, un’arte per sua natura immateriale e intangibile, bensì partiture libri strumenti dipinti, ossia manufatti che della musica testimoniano le strutture materiali, le tecniche operative, il contesto storico-culturale, il ruolo sociale, il codice espressivo. Tali musei si confrontano dunque col difficile compito di attirare a sé i visitatori senza potersi avvalere del seduttivo richiamo dell’arte che essi hanno per tema: pertanto, per essere valorizzati, invocano una didattica museale qualificata e diversificata, svolta all’insegna della pluralità e dell’intersezione delle competenze, che da un lato tenga in debito conto le caratteristiche dei pezzi esibiti, dall’altro i bisogni e le aspettative degli utenti.

Nello specifico, i musei della musica devono ottemperare a un dovere nei confronti dei loro visitatori: guidarli nell’interpretare criticamente la natura e il significato dei beni, sino a operare una sorta di “mediazione culturale” – interazione e trasferimento di conoscenze e contenuti – tra oggetto esposto e soggetto che fruisce. Il pubblico di tali musei deve poter ricontestualizzare i beni esposti – veicoli di un senso che non coincide con la loro consistenza materiale –, e quindi comprendere di cosa i beni stessi parlano. Una tromba marina, ad esempio, può essere un oggetto sconosciuto ai più; ma la distanza culturale che la separa dal suo fruitore potrà essere colmata se, oltre a guardarne la manifattura e le decorazioni, costui ne potrà ascoltare il suono, vedere le musiche e leggere le descrizioni che figurano nei testi coevi, opportunamente illustrati. Tali suppellettili e documenti concorreranno a costruire un discorso sulla musica come fenomeno estetico storico culturale sociale politico tout court. Una relazione tra visitatore e oggetto musealizzato così orientata stimolerà una predisposizione affettiva nei confronti dei beni e susciterà forti motivazioni ad apprendere, consoliderà abilità già acquisite e ne aggiungerà di qualificanti. Il museo potrà allora divenire uno spazio propizio a un’esperienza formativa durevole, qualitativamente apprezzabile, significativa sul piano degli apprendimenti.

 

Elisabetta Pasquini

Ricercatrice
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna