In Italia la coralità amatoriale soffre dello scarso ricambio generazionale: i cori, seppur numerosi, si assottigliano e invecchiano. La responsabilità, secondo molti, dipende dall’incultura musicale generalizzata del nostro Paese: gli Italiani, specie i giovani, non si accostano alla musica d’arte perché non la riconoscono come “attuale” e “godibile”, e si limitano alla fruizione passiva di musiche dal valore spesso modesto, se non decisamente basso.
La pratica esecutiva amatoriale del coro rappresenterebbe invece un ponte fra le complesse conoscenze di chi fa musica per mestiere e l’ignoranza dei giovani. Senza pregiudizio verso altre forme di aggregazione (per esempio la banda), si può guardare con particolare simpatia ai cori, per più ragioni. Innanzitutto il canto corale è assolutamente “democratico”, dato che il possesso dello “strumento” non comporta alcun esborso economico; ciò pone coloro che vi si dedicano in una condizione paritaria: non è poco. Il coro permette poi l’accesso diretto a un repertorio immenso e di alto valore, con un vantaggio a latere: lo tiene vivo e diffonde la conoscenza di brani che non sempre trovano spazio nelle programmazioni professionali e istituzionali. I cori costituiscono inoltre un caso interessante di didattica dell’adulto: sono sì luoghi dove si apprende un’abilità esecutiva più o meno avanzata, ma anche laboratori di crescita culturale e sociale. Il far gruppo – contribuendo con le proprie specifiche possibilità al risultato comune – non ha senso solo in età scolare: anche per gli adulti l’esercizio della disciplina, che un’attività comune impone, rafforza dinamiche sane.
La trasmissione del sapere nel caso degli adulti comporta non solo metodologie specifiche, differenti da quelle per l’istruzione infantile e scolastica, ma anche obiettivi educativi diversi: non si tratta di educare alla cittadinanza, i cui fondamenti dovrebbero essere già acquisiti, ma di renderla più solida e meglio radicata: un impegno affascinante! A questo scopo sarebbe utile che i direttori, quasi sempre musicisti di ottima formazione, oltre a far “cantar bene”, spingessero i coristi ad un rapporto culturale profondo con l’oggetto affrontato, fecondando (in modo magari sintetico, ma ricco e preciso) l’attività esecutiva con contenuti culturali qualificanti. Dall’unione della dimensione ludica, sacrosanta, e della consapevolezza storico-culturale dei brani eseguiti, può nascere un circolo virtuoso utile per rimpolpare le file dei nostri cori e diffondere la buona cultura musicale nel Paese.
Trasmettere cultura è un dovere per chi la possiede: altrimenti essa si perde, e la società subisce un impoverimento. A chi giova?
Paolo Valenti
Dottorando in Musicologia e Beni musicali
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna