L’inarrestabile esplosione dei media digitali e della rete negli ultimi quindici anni ha destato non poche perplessità tra educatori, accademici attenti alle problematiche pedagogiche, e genitori. Si è pensato che l’enorme disponibilità di contenuti, anche artistici, fruiti in maniera immediata e indifferenziata, dovesse portare a una sorta di mutazione antropologica, capace di ridurre le giovani generazioni alla stregua di neo-barbari digitali ignoranti e confusi. Un timore non certo nuovo: nei primi anni del secolo scorso il cinema era visto da alcuni come “strumento del demonio”, mentre la televisione è stata ritenuta causa di degrado culturale e decadimento artistico. Ma è davvero questa la prospettiva sconsolante che ci attende?
Il dato più rilevante cui oggi si dovrebbe prestare attenzione è l’ascesa delle culture partecipative, nuove forme di produzione di contenuti e di relazioni sociali nel contesto della rete. L’espressione “culture partecipative”, popolarizzata dai lavori di Henry Jenkins, rimanda a quelle situazioni, favorite dai media digitali, nelle quali è relativamente facile accedere a processi di produzione culturale e artistica fondati sulla circolazione e condivisione dei prodotti, nonché delle competenze e delle abilità. Al di là delle articolazioni complesse di questo nuovo contesto culturale (cfr. H. Jenkins Culture partecipative e competenze digitali. Media education per il XXI secolo), un esempio illuminante è quello di Wikipedia: milioni di voci create da una comunità che ha realizzato in collaborazione ogni singolo testo; ha condiviso conoscenze, competenze redazionali e regole di comportamento. Si può certo discutere sull’accuratezza delle voci (migliore di quanto si pensi), ma il dato sorprendente è quello di una comunità di oltre trenta milioni di persone da tutto il mondo che ha dato vita a un progetto culturalmente qualificato e duraturo, senza alcun riscontro economico e neanche la soddisfazione di vedere pubblicato il proprio nome. Incredibile, se si pensa alla vulgata dei neo-barbari digitali!
La questione allora è un’altra, e più seria: bastano questi processi di partecipazione informale a garantire la formazione delle giovani generazioni nel campo dei media e della creatività? Possono i “nativi digitali” usare consapevolmente i nuovi media facendo a meno di qualunque progetto educativo formalizzato? La risposta di Jenkins, che pure fonda il suo lavoro sulla valutazione attenta delle culture partecipative, è chiara ed è negativa. Lo studioso sostiene – io credo con piena ragione – la necessità di un intervento pedagogico e politico che si faccia carico di tre questioni: consentire a tutti l’accesso alle culture partecipative, sviluppare nelle giovani generazioni capacità analitiche e critiche rispetto ai media, socializzare gli standard etici per le attività creative e partecipative.
Dunque, con ogni probabilità, i media digitali non segneranno la fine della nostra tradizione culturale e neanche costituiranno un nuovo Eden dell’apprendimento, fondato solo su processi di socializzazione e condivisione. Restano tuttavia problemi specifici, importanti e urgenti da affrontare: ad esempio, far convivere, coordinare e utilizzare al meglio le forme implicite di formazione legate alle culture partecipative, le attività educative istituzionalizzate, quelle dell’ambito familiare. Una sfida cruciale per gli educatori, che non devono essere lasciati soli: occorre infatti una volontà politica consapevole, e soprattutto una intensa e innovativa attività di ricerca che veda convergere competenze pedagogiche e studi mediali.
Guglielmo Pescatore
Professore ordinario
Semiotica dei media e Teoria e tecnica dei nuovi media
Università degli Studi di Bologna