Il patrimonio culturale sfugge a una definizione condivisa. Tutti i saperi di tipo storico e critico se ne appropriano e lo vantano come il proprio oggetto: letterature, musica, archeologia, etnografia, scienze del libro, arti visive.
Nella babele dello specialismo il concetto indistinto di ‘bene culturale’ pretende di distinguere tra beni ‘materiali’ (oggetti) e beni ‘immateriali’ (tradizioni, culture, altre forme ‘intangibili’). Alla nozione di patrimonio appartiene sia la ceramica studiata dall’archeologo sia la memoria di eventi, di rappresentazioni mentali e culturali: il suo territorio è dilatato fin quasi a coincidere con l’umanità stessa (e le humanities) nel segno della ricerca storica, che decifra e valorizza i documenti, e dell’analisi critica, che li valuta e li interpreta.
Nell’opinione comune prevale l’idea che i beni culturali siano legati al territorio, votati alla fruizione museale e quindi identificabili con l’archeologia, la storia dell’arte, le tradizioni etnografiche. Questa percezione è favorita dall’esistenza di apposite Soprintendenze, organismi di un Ministero per i Beni culturali. Ma l’oggetto di studio degli specialisti chiamati a definire, interpretare, tutelare e valorizzare tale patrimonio resta ancorato ai contenuti e ai metodi del rispettivo statuto disciplinare. Anche quando si prefiggano come obiettivo lo studio dei beni culturali, gli archeologi continuano a praticare l’archeologia, gli storici dell’arte la storia dell’arte, e così via.
Questa evidente tautologia mette a nudo i limiti disciplinari e concettuali dello studio del patrimonio culturale. Quali ne sono i metodi? e quali gli oggetti? Non basta proclamare che la specificità risiede nell’approccio interdisciplinare. Certo, nello studio di un tempio greco l’archeologo attinge metodi e competenze da altre discipline (filologia classica, storia delle religioni, ecc.). Ma in realtà qualsiasi tipo d’indagine umanistica fa appello all’interdisciplinarità. Esiste piuttosto una diversa prospettiva che caratterizza e specifica i termini dello studio del patrimonio culturale. Non è ancora una disciplina, nemmeno una scienza: ma un sapere di frontiera di cui si percepiscono con crescente chiarezza i metodi e gli oggetti di riferimento. Ma diversamente da altri saperi – e dai cosiddetti settori scientifico-disciplinari – si tratta di un territorio per ora privo di una comunità accademica di riferimento. Molti già praticano questo sapere senza però esserne consapevoli, e senza riconoscersi a vicenda.
Più che di una disciplina si tratta di una meta-disciplina: un sapere che punta a organizzare, modellare, trasmettere altri saperi e altre conoscenze. Esso si rifà alle categorie e ai processi – sviluppati in altri paesi più che in Italia – dell’analisi della documentazione e della scienza dell’informazione. In inglese: Library and Information Science.
Questo sapere sui saperi è invero antico, ed è intrecciato alle teorie e ai metodi della filosofia. Occorre risalire ad Aristotele, al suo programma di interpretazione e categorizzazione della realtà in termini di ontologie, svolto in parallelo alla raccolta e organizzazione di documenti scritti: i saperi intesi come ‘enciclopedia’ e ‘biblioteca’. (Si attribuisce tradizionalmente ad Aristotele e alla sua scuola l’origine di una ‘organizzazione bibliotecaria’.) Non è un caso se nel dibattito contemporaneo sull’organizzazione e il controllo della disseminazione di informazioni nella rete si fa ricorso al concetto, del tutto metafisico e appunto aristotelico, di ‘ontologia’.
La nostra meta-disciplina si occupa di qualsiasi oggetto – di preferenza quelli che rientrano nel vastissimo insieme dei beni culturali – riducendolo a documento, ossia a struttura informativa, rete di relazioni semantiche e sintattiche con altri oggetti e altri documenti. Perciò tale approccio meta-disciplinare si può efficacemente definire col termine ‘documentazione’. L’attività di ricerca che ne delimita i confini, per quanto ampi, consiste in primis nel costruire e analizzare modelli concettuali di rappresentazione della conoscenza, e nel gestire le informazioni circa i documenti, materiali e immateriali, del patrimonio culturale, in termini di produzione, organizzazione, conservazione, reperimento. Certo, la documentazione si può applicare anche a oggetti d’ambito scientifico, dalle equazioni algebriche alle ricerche sulle cellule staminali: ma anche in questo caso l’idea meta-disciplinare che ne scaturisce conduce a una ‘patrimonializzazione’ della conoscenza, a conservarla ordinatamente per le generazioni future. Le e-mail di due studiosi di algebra diventano patrimonio culturale, restituibile a una futura ricerca storica, se opportunamente conservate, organizzate e gestite in senso documentalistico.
Le competenze degli addetti alla documentazione in quanto tale – e quindi al patrimonio culturale – sono quelle che in altri contesti e orizzonti (anche di tipo aziendale) si denominano information literacy e knowledge organization: competenza informativa e organizzazione della conoscenza. In ogni società occorre elaborare strategie specifiche per produrre, reperire e utilizzare informazioni efficaci in qualsiasi contesto e per poter articolare i bisogni informativi in termini ricercabili basati su linguaggi formalizzati.
Nel caso del patrimonio culturale, la ricerca, interpretazione e valutazione delle informazioni, nonché la modellazione e trasmissione della conoscenza mediante la sua segmentazione in nuclei informativi, dati e strutture documentarie (analogiche o digitali), pongono problemi, esigono metodi e tecniche strategicamente orientati alla conservazione, alla valorizzazione, alla comunicazione critica nei confronti di una platea di fruitori sempre più ampia.
Lo studio di oggetti di ricerca propri di altri saperi – il reperto archeologico, o l’opera d’arte, o il monumento – nella prospettiva non già di una ricostruzione storica o critica, bensì dell’analisi delle funzioni da essi svolte nelle società e culture che li hanno prodotti e tramandati, non si definisce ancora come un’epistemologia certa e riconoscibile. Ma il compito e il ruolo degli intellettuali (se non vogliono ridursi ai tecnocrati derisi nei Minima moralia di Adorno) consiste appunto nell’azzardo cognitivo, nella sfida dell’innovazione rispetto alle certezze della tradizione. La modellazione concettuale, l’analisi informazionale restituiscono allo studio del patrimonio culturale la prospettiva dinamica delle culture: la nozione di ‘tempo’ modifica il valore di un oggetto, in ragione delle funzioni da esso via via assunte nelle società che l’hanno dapprima prodotto, indi utilizzato, conservato e infine esposto per una fruizione più ampia in strutture museali. Lo studioso del patrimonio culturale non ha tanto il compito di ricostruire da un frammento di bronzo la punta della lancia di una cultura antica, bensì di spiegare perché quello strumento è stato considerato significativo dalle culture che l’hanno raccolto e conservato sino a noi.
Angelo Pompilio, Ordinario di Storia della Musica moderna
Alessandro Iannucci, Ricercatore di Lingua e Letteratura greca
Università degli Studi di Bologna, Campus di Ravenna