È sotto gli occhi di tutti: i giovani consumano musica soprattutto attraverso iPod e telefonini di ultima generazione, per strada, sui mezzi di trasporto, sui banchi di scuola. Le origini di queste pratiche risalgono a quel walkman che ha accompagnato footing e passeggiate di molti di noi, negli anni Ottanta. In fruscianti cassette da 60, 90 o 120 minuti finivano i nostri pezzi preferiti, pazientemente selezionati e riversati; ed era un gesto d’amore. Adesso, oltre alle ultime novità della musica leggera, praticamente tutto quanto è mai stato inciso, comprese esecuzioni storiche della musica d’arte o le compilation di trenta o quarant’anni fa, può essere indistintamente scaricato come si usa dire “con un solo click” (troppo facile per scegliere bene), poco o nessun costo, e archiviato su uno di questi dispositivi. La loro capienza cresce di anno in anno: un telefonino ben attrezzato potrebbe oggi comodamente contenere gli opera omnia di Beethoven.
Al di là dei possibili danni acustici (esaltati dai generi più diffusi presso i giovani, vedi la disco music o il rock) e della limitata fedeltà sonora offerta da files .mp3 ultracompressi in cui il suono è ridotto a pallido simulacro, non conviene stigmatizzare simili strumenti; fra l’altro sarebbe inutile. Conviene invece educare a farne un uso appropriato.
L’esperienza musicale è per sua natura socializzante. Si esegue musica per qualcuno che ascolta, al concerto o in famiglia; un ascolto dal vivo o su stereo può essere utilmente condiviso e discusso con amici e compagni di studio: nei modi e nei tempi giusti, per libera scelta, adesso o fra un’ora. Così almeno si dovrebbe. La musica su iPod diviene invece esperienza solitaria, gesto automatico protratto fino allo sfinimento. Volendo trovare il buono in ogni cosa, l’inquinamento sonoro che tradizionalmente ammorbava luoghi pubblici come spiagge o parchi ne ha tratto giovamento; non altrettanto l’ascolto come fattore di crescita interiore e di confronto. Paradossalmente l’esperienza musicale rischia di trasformarsi, facendo torto a sé stessa, in induzione all’isolamento e fattore straniante, soprattutto qualora non si disponga di motivazioni più fini e ponderate che non il vuoto piacere di maneggiare un dispositivo alla moda. Anche la grande musica ne fa le spese: ascoltare la Sinfonia Pastorale in uno squallido vagone della metropolitana può dar l’illusione di essere in un mondo migliore, ma è appunto un’illusione che non aiuta a riconoscere la realtà e a controllarla, ma spinge a rifiutarla. Il corretto godimento dell’arte, infatti, non corrisponde in toto ad un processo di estraniazione; semmai contribuisce a fissare scenari – storici, estetici, emotivi – sulla base di competenze acquisite. Chi già le possiede può trarre giovamento dalla sconfinata disponibilità di musica sempre appresso e saprà graduarla e consumarla nei modo opportuni; chi invece non le abbia ancora maturate rischia di usare la musica digitale come una sorta di improprio schermo protettivo nei confronti del mondo.
Qualche correttivo è possibile; semplici istruzioni per l’uso nei modi, nei tempi e nelle misure. Far sì, soprattutto, che la musica su iPod sia il prolungamento dell’esperienza e non l’esperienza stessa, e che si passi dalla sala da concerto, dallo strumento praticato o almeno dalle casse dello stereo di casa – ossia da ambienti in cui la musica si diffonde come dovrebbe e in cui poter condividere spazio e ascolto con altri – prima di giungere agli auricolari dell’iPod. Troppo angusti per Beethoven, o per chicchessia.
Andrea Chegai
Professore associato di Musicologia e Storia della musica
Università di Roma «La Sapienza»