Già a partire da un celebre manifesto fondativo dell’arte della mise en scène – le Regeln für Schauspieler di Goethe – è evidente che col suo stesso avvento il teatro di regìa ha profondamente condizionato i processi di formazione dell’attore occidentale. Se oggi l’«istanza totalizzante» della metafisica registica classica s’indebolisce, ciò non può non comportare una nuova revisione della ratio studiorum attoriale. Molti sono i nodi didattici che le scuole per attori si trovano a dovere sciogliere, tutti riconducibili però a una comune bozza di intenti.
In primo luogo, con una decisa inversione di rotta rispetto ai programmi che tendevano a formare interpreti funzionali al disegno e all’organizzazione registici, occorre oggi educare l’attore a una diversa autonomia espressivo-gestionale, disponendolo sì a confrontarsi con le logiche di gruppo che presiedono all’articolazione del discorso teatrale – determinate in parte dal punto di vista registico – ma dotandolo altresì dei mezzi che gli consentano di tornare ad essere un elemento propulsivo nella creazione scenica. Non si tratta beninteso di lavorare per un restauro della civiltà del “grande attore”, ma di assecondare un superamento del pensiero registico che faccia tesoro delle acquisizioni capitali della regìa del secolo XX.
È bensì vero che la trasmissione delle competenze tecnico-teatrali connesse alla gestione dell’azione scenica resta la chiave di volta dell’architettura formativa di ogni scuola di recitazione; ma nell’età “liquida” delle “intersezioni” in cui fluttuiamo una nuova pedagogia dell’attore non può non raccogliere quella che, tra Brecht e Calvino, potremmo definire l’attuale “sfida della complessità”. Senza rinunciare all’educazione del corpo e della voce, discipline fondamentali per un corretto avvio al gioco della recitazione, il canone delle arti liberali di un attore del secolo XXI deve avere un impianto rizomatico, in cui confluiscano saperi teorici e abilità tecniche delle più varie specie, dall’antropologia alla sociologia, dall’economia alla politica o all’informatica, passando magari per la linguistica o la filosofia. La prima posta in gioco di un tale aggiornamento metodologico sta nel trasmettere all’attore un sistema di riferimenti fondamentali che gli consenta di cogliere la frattale realtà contemporanea ed elaborare di conseguenza forme espressive adeguate alla restituzione scenica di quella stessa realtà. Non meno cruciale, in seconda battuta, è l’addestramento delle nuove leve attoriali all’uso di tutti gli strumenti atti a ricucire il rapporto col pubblico: questo essendo il vero punto debole, oggi, di quel sistema di comunicazione in reciproca presenza che è l’esperienza teatrale.
Infine, vista la critica imperante alla sclerotizzazione del teatro di regìa magistrale, una nuova pedagogia “flessibile” dell’attore trova forse nella mobilità “ordinata” del linguaggio musicale un ideale paradigma organizzativo. Non è certo un caso che, risaldandosi alle aurorali ricerche musicali di Adolphe Appia o Vsevolod Mejerchol’d, i teatri che suonano e cantano di Christoph Marthaler, di Heiner Göbbels o del Nature Theater of Oklahoma paiano additare nel pentagramma uno degli spazi privilegiati di sviluppo dei nuovi teatri a venire.
Claudio Longhi
Professore associato di Istituzioni di regia
Dipartimento delle Arti – Università di Bologna