Il disinteresse del pubblico dei concerti nei confronti della musica d’arte del Novecento è cosa ben nota: prova ne sono i ghetti istituzionali in cui buona parte delle occasioni di ascolto di queste musiche hanno trovato rifugio. Non si tratta ora di risuscitare polemiche definitivamente sepolte sul nuovo e sul vecchio, né di appellarsi a quote (minime) di (una qualche) modernità – palliativo di rigore nella programmazione musicale dei più grandi Teatri italiani. Rimane piuttosto la convinzione, di fronte a una situazione ben poco incoraggiante, che solo un’educazione attenta alle esperienze musicali del secolo scorso, alla loro fondamentale inquietudine linguistica, potrebbe dare una qualche chance di sopravvivenza all’eredità di una stagione straordinariamente ricca di ricerche e sperimentazioni.
Naturalmente nel divenire della cultura un momento vale quanto un altro; resta tuttavia l’enigma di un distacco che non ha uguali in altre forme di espressione artistica. Perché dunque attirare l’attenzione della didattica musicale sui compositori del secolo ventesimo? Perché insistere su un repertorio all’apparenza così ostico e poco attraente?
In negativo: per evitare di fissare l’immaginario musicale degli studenti su un modello troppo angusto di musicalità, a volte settecentesco, a volte ottocentesco; per scardinare alcune nozioni monolitiche di ciò che un’opera musicale è (o debba essere) in quanto “opera” e in quanto “musicale”. E quindi per tentare di smussare quell’effetto di indifferenziata eccentricità che sembra essere la cifra inevitabile dell’ascolto di buona parte del Novecento musicale, da Schönberg agli spettralisti francesi, passando per Messiaen, Boulez, Stockhausen, Berio, Nono e tanti altri.
In positivo: perché queste opere rappresentano, per la loro stessa natura sperimentale ed esplorativa, altrettante occasioni di interrogazione non solo sulle sorti della musica nel nostro immediato passato, ma – questione essenziale ai nostri fini – sulle modalità di formazione del senso musicale e sui presupposti che ne giacciono alla base e la rendono possibile. Il disorientamento provocato dall’ascolto della Sinfonia di Webern o della Sinfonia di Berio (per citare due opere ambiguamente intitolate a una forma classica della tradizione) non può che rappresentare un fertile terreno per una riflessione sulla relatività dell’ascolto. Questo momento di esplicitazione e di messa in discussione dell’orizzonte entro il quale si fa esperienza di qualcosa come un’opera musicale, mi sembra essere un complemento necessario – e per lo studente e per l’insegnante – di quell’altro momento formativo, altrettanto necessario, che è la “visita guidata” al museo dei capolavori, passati e presenti.
Francisco Rocca
Dottorando in Cinema Musica Teatro
Alma Mater Studiorum – Università di Bologna