La celebre filosofa americana Martha Nussbaum in un libro degli anni ’90 del secolo scorso, Coltivare l’umanità. I classici, il multiculturalismo, l’educazione contemporanea (ed. originale 1997, trad. it. 1999), dedica un intero capitolo ai women’s studies, introdotto da una citazione da Sulla servitù delle donne (1869) di John Stuart Mill: «possiamo affermare con sicurezza che la conoscenza che gli uomini possono raggiungere delle donne […] è miseramente imperfetta e superficiale e sarà sempre tale fino a quando le donne in prima persona non avranno detto quello che hanno da dire».
I women’s studies, a parere di Nussbaum, tentano di scuotere le coscienze: chiedono infatti agli studiosi di non arrendersi alla tirannia dell’abitudine e alle idee convenzionali relative a ciò che è “naturale” e li stimolano a confrontarsi con nuove prospettive. Nussbaum annotava che il mondo accademico americano era impegnato a promuovere insegnamenti adeguati in numerose discipline per giungere a una più esaustiva descrizione della realtà. Se fin dagli anni ’70 in area anglosassone e nordica i corsi di women’s e/o gender studies sono stati istituzionalizzati, non altrettanto è successo in Italia dove questi studi coprono una percentuale bassissima dell’offerta formativa con importanti ricadute sui diritti delle donne. Farò solo due esempi: uno in area scientifica, la medicina, uno in area umanistico-sociale, il diritto.
L’approccio “neutrale” della medicina, in-differente al genere, che caratterizza i percorsi di studi e gran parte della ricerca, costituisce un importante fattore di discriminazione delle donne, in quanto non tiene conto delle specificità biologiche del corpo femminile. Nel 2011 la risoluzione del Parlamento Europeo sulla riduzione delle disuguaglianze sanitarie nella Unione Europea ha indicato la mancata considerazione delle differenze di genere unitamente alla sottorappresentazione delle donne nelle sperimentazioni cliniche quali importanti fattori di disuguaglianza. In Italia solo nel 2019, in ottemperanza alla legge n. 3 del 2018, cosiddetta legge Lorenzin, ha varato un piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di genere, piano che, peraltro, tarda a trovare applicazione.
Quanto al diritto, per secoli questo è stato blind circa le differenze e ha fatto delle generalità e astrattezza delle sue norme il fondamento del principio di uguaglianza e di pari trattamento, ma per secoli il diritto è stato costruito e ritagliato sulla base di un soggetto solo apparentemente neutro, in verità con caratteristiche rispondenti a quelle dei maschi del gruppo dominante e ha quindi di fatto comportato l’esclusione e la discriminazione di altri soggetti, comprese le donne.
L’eguaglianza, rivendicata nell’Ottocento dal femminismo liberale sulla scia di Stuart Mill, è stata progressivamente riconosciuta sul piano formale dalle Dichiarazioni universali e dalle Costituzioni nazionali, ma di fatto molti principi sono rimasti e rimangono sulla carta.
Per creare una cultura capace di favorire effettive condizioni di parità e di incidere sulle politiche e le scelte decisionali credo, quindi, sia fondamentale includere nella formazione dei docenti e degli studenti, i women’s / gender studies, con l’auspicio che questi riescano – come scrive Nussbaum – a “scuotere le coscienze”.
Carla Faralli
Professoressa Alma Mater di Bioetica e Women and Law
Università di Bologna – Dipartimento di Scienze Giuridiche