Udite questo, anziani,
ascoltate tutti, abitanti del paese:
è mai capitato ciò ai vostri giorni
o ai giorni dei vostri padri?
Raccontatelo ai vostri figli,
e i figli vostri ai loro figli,
e i figli di costoro all’altra generazione!
(Gioele 1, 2-3)
Un aspetto della nostra vita che spesso sfugge è che i figli ignorano completamente la prima parte della vita dei propri genitori, mentre i genitori, se le cose vanno secondo natura, non sapranno mai la parte finale della vita dei loro figli. Quasi estranei uno all’altro si incontrano solo per un tratto della loro esistenza: la conoscenza avverrà per gesti, azioni, vicende, ricordi. Ma soprattutto narrazioni, fatte spesso di domande e risposte; fatte a volte di necessari esodi verso la terra promessa che interromperanno il racconto delle due parti e costituiranno, non l’evoluzione di una generazione, ma la filiazione di aspettative, di sconfitte e di vittorie.
Occorre chiedere, chiedere sempre: ai maestri, ai genitori, agli anziani i racconti della vita – verrà il giorno in cui non potranno più farlo – che resteranno negli anni composti soltanto da mucchi di domande a cui si potrà dare risposta rimettendo insieme un mosaico di ricordi, di parole, di suggerimenti: soffi di memoria. Tentando di rimettere insieme i frammenti di quell’incontro, comunque sempre troppo breve. Frammenti: dividere è moltiplicare, grande lezione di economia e di finanza, come si fa col primo verso di una poesia imparata a memoria.
Da qui, l’importanza degli anziani: tranne che in società non strettamente riconducibili all’egemonia occidentale, nella nostra cultura vengono vissuti come zavorra spesso insopportabile e vengono tenuti lontani soprattutto dai giovani. Mentre solo loro possono narrare, con calma, con pazienza e capacità di ripetizione anche ossessiva (le chiamano malattie degenerative, ma in realtà la ripetizione è fondante per la memoria di chi parla e di chi ascolta), gli eventi ai quali i giovani non hanno assistito.
La morte reale è la fine della trasmissione della conoscenza.
Vi darei forza con la mia bocca,
vi calmerei muovendo le labbra.
(Giobbe 16,5)
La forza dell’espressione aurale ha un impatto difficilmente sostituibile. La vocalità, le intonazioni, le inflessioni ma persino il dialetto: tutto ciò è trasmissione. La nostra generazione attuale non saprà insegnare ai nostri ragazzi la robotica o la tecnologia dei droni, ma saprà raccontare come ci si è arrivati: quando per battere a macchina una tesi si usava la carta carbone; si inviava il testo con posta ordinaria e francobollo aspettando un mese per ricevere le correzioni; quando si usava la cabina telefonica; quando si facevano lunghi tragitti e lunghe attese in biblioteca per trovare, o non trovare, un testo e definire una bibliografia. Nulla aveva l’urgenza del “sùbito”, troppo simile per radice latina al “subire”. Ma il tempo che passava nella costruzione dell’apprendimento era esso stesso ragione di riflessione. Potremo, dovremo narrare di quando il sapere era una questione di conquista. Di sudore, di attesa, di tempo.
La parte formante della memoria è l’esperienza: la propria e l’altrui. Come diceva Plinio il Vecchio, la memoria ha luogo nell’orecchio e Apuleio la situava nel cuore: Accetta dalla sua bocca l’istruzione | e imprimiti nel cuore le sue parole (Giobbe 22, 22).
Tutti i testi della grande tradizione orale si basano sulla ripetizione: frammenti di eventi reiterati senza sosta, perché non si perda il filo (fils in francese è figlio) del passaggio di staffetta. Ripetere è forma letteraria: Gilgamesh, il testo più antico, e la Bibbia sono basati sul ricordo degli eventi e il continuo insistere narrativo che si svolge nel tempo. Un tempo reale durante il quale le generazioni mutano.
Trasmettere, soprattutto errori, non solo vittorie. La nuova etnomusicologia lo insegna, con grande onestà intellettuale e grande acume, così come Popper ne riportava l’importanza: l’errore è la natura salvifica della conoscenza. Interrompere la consegna dei saperi sarebbe cancellare la storia, le storie: occorre rammentare, rammendare lo strappo di stoffa del filo. La paura attuale che tutto ora cambi con le nuove modalità di insegnamento a distanza non va alimentata. Non sarà come noi trasmetteremo. Sarà, sempre, cosa e quanto saremo in grado di trasmettere.
Anna Menichetti
Docente di Musicologia sistematica
Conservatorio di Musica “Luigi Cherubini” di Firenze