Tempo fa ho sentito un esaltato affermare che il ventunesimo secolo sarà il secolo della didattica. Un altro esaltato mi ha confidato che, se divenisse ministro dell’istruzione, revocherebbe il pass a tutti gli esperti di pedagogia e didattica che si aggirano nei corridoi di viale Trastevere. Ovviamente la didattica non sarà il motore della storia nel nostro secolo, né i problemi della scuola si risolvono ostracizzando i cultori (forse un po’ troppi, ma non tutti superflui) delle scienze dell’educazione. Nel gioco della torre sarei molto indeciso su quale dei due salvare. Gli invasati non mi piacciono e sarei tentato di scaraventarli giù entrambi. Magari, per ragioni umanitarie, alla generica torre sostituirei il castello di Praga: i legati imperiali ebbero salva la vita perché l’impatto con la terra boema fu attutito da un cumulo di materiale organico posto sotto la finestra, maleodorante ma provvidenziale. Alla fine, tuttavia, messo alle strette, penso che risparmierei il secondo esaltato, il mitomane che si immagina ministro. Per quale motivo?
Credo che alla troppa (e cattiva) didattica sia preferibile nessuna didattica. Nel secondo caso si priva l’insegnamento di un supporto sicuramente utile, ma nel primo temo si producano guasti più gravi. Con la troppa didattica si perdono di vista i contenuti, si trascura la formazione disciplinare degli insegnanti, si distoglie l’interesse dal profilo qualitativo dei saperi (orrido plurale!). Con la cattiva didattica – se ne è conosciuta molta – si subordina la scelta dei temi disciplinari all’esigenza di oliarne la trasmissione piuttosto che selezionarli primariamente in ragione del loro potenziale formativo. L’educatore viene riconvertito in esperto di lubrificanti, il “che cosa” viene fatto dipendere dal “come”, e così si stravolgono le priorità, adattando la cultura musicale alla possibilità di contenerla nell’orizzonte recettivo più semplice e meno scomodo. Se ne fa un momento disimpegnato e quasi ricreativo della vita scolastica, si riduce l’apprendimento a una forma di assimilazione, nel senso di acquisizione di qualcosa che è in qualche modo simile e omogeneo alle strutture valoriali degli adolescenti. Si consolidano attitudini conformiste, si assecondano le già pesanti spinte adattive esterne all’ambiente scolastico, si eccede nell’assumere il punto di vista dell’allievo e lo si priva della felicità derivante dal superamento degli ostacoli e dalla scoperta di mondi nuovi. In sostanza, si diseduca.
A questo punto l’ipotetico lettore vorrebbe domandarmi quale sia per me il modello più fecondo di educazione musicale. Lascio la parola a chi lo ha illustrato con espressioni più efficaci delle mie. Nel Doctor Faustus Thomas Mann così descrive i convincimenti di uno dei personaggi, Wendell Kretschmar, il musicologo balbuziente (controfigura letteraria di Th. W. Adorno) che con i suoi insegnamenti apre le menti del protagonista e di altri giovani uditori: “seguiva il principio, che udimmo ripetutamente dalle sue labbra plasmatesi in origine per la pronuncia inglese, che non l’interesse degli altri conta, bensì il proprio, che quindi si tratta di destare l’interesse, il che avviene soltanto, ma con certezza, quando noi stessi ci interessiamo a fondo a un soggetto e parlandone coinvolgiamo necessariamente gli altri, li contagiamo creando in questo modo un interesse inesistente, insospettato e ottenendo un rendimento maggiore di quello che otterremmo col secondare un interesse già esistente”. Negli anni di docenza universitaria mi sono attenuto a questa linea, e in genere i miei allievi non hanno disprezzato quanto, del tutto disarmato di didattica, mi sono sforzato di trasmettere.
Antonio Serravezza
già Professore ordinario
Università di Bologna