Il mio fugace passaggio nella scuola secondaria di primo grado come insegnante di Educazione musicale avviene agli albori degli anni Ottanta. In quegli anni già si stava movendo qualcosa per far emergere la nostra povera disciplina da una condizione che era poco definire marginale nel contesto dell’offerta formativa scolastica. Giovane e totalmente inesperta, ero considerata un utile jolly per riempire i buchi e soprattutto “per far divertire i ragazzi”. Ovviamente sono dell’idea che le due cose – formare e divertire – non debbano necessariamente essere in conflitto fra loro, a patto che questo possa essere applicato a qualsiasi disciplina, comprese la matematica, la biologia, e l’ormai (ahimè) superata educazione civica.
A quei tempi una buona parte dei colleghi più anziani della mia stessa disciplina non aveva alcun titolo musicale: per una segreteria scolastica aver seguito un corso di ricamo era sufficiente per reclutare docenti di Educazione musicale. Non è stato facile, quindi, relazionarmi né con i docenti delle discipline forti (tutte le altre) né, tantomeno, con i miei colleghi di “musica”, interessati solo a tenere buona la classe mettendo su un disco dei Duran Duran.
Non avevo allora nemmeno gli strumenti metodologici di base che allora si stavano costruendo, non avevo esperienza, non avevo nulla: desideravo però iniziare dall’ascolto. Mi sono affidata all’istinto, mi sono messa nei panni di un ragazzino di 11/12 anni alle prese con un pezzo di musica complesso e completamente estraneo al suo comune sentire e alla sua esperienza di ascolto. Sono andata sul pesante e ho scelto il Quinto concerto per pianoforte e orchestra di Beethoven. Perché? Prima di tutto ho pensato che avrei dovuto orientarmi sulla musica assoluta, per allontanare qualsiasi tentazione di distrarre i ragazzi dal fatto musicale puro e semplice, ma volevo anche una struttura in cui fosse evidente un principio dialettico, in quel caso fra un individuo, il pianoforte, e un insieme, l’orchestra.
Ho immediatamente percepito che il livello di attenzione dei ragazzi di quella fascia d’età (ma non solo!) per un brano complesso non superava il minuto o poco più, e quindi sono stata prudentemente attenta a spingere il tasto stop del mio modestissimo registratorino (mio, perché la scuola non aveva nemmeno quello) non appena vedevo le testoline dei miei ragazzi prendere il volo verso altri pensieri. Ma era necessario anche coinvolgerli e “farli lavorare” (oltre che “divertire”). Ho quindi chiesto loro di fermare su carta quanto ascoltavano attraverso una personale scrittura: facendo ascoltare il brano per brevissimi frammenti di senso compiuto ho chiesto loro di individuare tutti i diversi parametri e tradurli in segni: direzionalità, altezza, durata, varietà timbrica, strutture verticali e strutture orizzontali, ma anche costruzioni sintattiche più complesse, progressioni, cadenze (perfette o evitate), modulazioni. Il risultato è stato per me entusiasmante: sono venute fuori autentiche e coloratissime partiture nelle quali era possibile individuare anche i più sottili dettagli del linguaggio musicale. Quando poi i ragazzi, spontaneamente, mi hanno chiesto di sentire tutto il pezzo di séguito, senza interruzioni, è stato bellissimo vederli seguire la musica sulla loro personale partitura, voltando le pagine dei loro quadernoni.
Forse gli odierni esperti di didattica dell’ascolto sorrideranno nel leggere queste righe, ma allora, almeno io, non avevo a disposizione dotti strumenti pedagogico-didattici. L’unica cosa che dovevo, potevo fare, era mettermi dalla parte dei ragazzi e cercare di capire quale poteva essere la chiave per catturare il loro interesse.
Quando sono andata via non credo di aver lasciato un buon ricordo fra i miei colleghi, che volevano da me solo che insegnassi la “canzoncina di Natale”, oppure che facessi dissertazioni su Guido d’Arezzo – questa fu l’esplicita richiesta di una collega che mi attaccò violentemente in collegio docenti, brandendo un manuale di storia della musica. Spero però che almeno qualcuno di quei quadernoni colorati con la partitura del Quinto concerto di Beethoven sia sopravvissuto.
Teresa Maria Gialdroni
Professoressa associata
Dipartimento di Storia, Patrimonio culturale, Formazione e Società
Università di Roma “Tor Vergata”