La crisi pandemica avviata nel 2020 ha evidenziato le criticità latenti che attengono al lavoro culturale, dalla discontinuità e precarietà dei rapporti di lavoro all’inadeguatezza delle tutele, ma ha anche suscitato una rinnovata attenzione sulla relazione tra l’occupazione e l’istruzione superiore. Proponiamo alcuni elementi di riflessione su questo tema, partendo dalle analisi svolte da Eurostat – l’ufficio statistico dell’Unione europea – dalle quali emerge che nel 2020 (ultimo dato disponibile in materia), in Italia i frequentanti i corsi di istruzione terziaria ascrivibili all’ambito culturale erano circa 402.000, pari al 19,8% del totale degli studenti dello stesso livello (nel 2019, erano 389.000, il 20.1%): la percentuale più alta tra i paesi dell’Europa dei 27, che contava complessivamente 2.543.000 frequentanti e una media del 14,1% (anche negli anni precedenti l’Italia aveva primeggiato in questa classifica). Tali risultati rivelano una diffusa vocazione nelle nuove generazioni del nostro Paese verso le professioni della cultura, che trova plausibilmente origine nel portato del nostro patrimonio culturale materiale e immateriale. Rispondono altresì alle esigenze del mercato del lavoro: nel 2020 le figure professionali che afferivano al settore in possesso di un titolo di studio terziario erano il 43,4% contro il 24,1% del resto dell’economia.
A fronte di questi dati, per molti versi positivi, rileviamo però che nello stesso anno la percentuale degli occupati del settore rispetto al totale dei lavoratori si è attestata in Italia, seppure di poco, al di sotto della media dell’Unione europea, il 3,5% contro il 3,6%. Ciò induce a trarre molteplici inferenze, a cogliere palesi contraddizioni – basti pensare che siamo il paese al mondo con il maggior numero di siti Unesco patrimonio dell’Umanità – e sicuramente testimonia mancati investimenti del passato. Prendiamo in primo luogo in considerazione alcuni esiti significativi dei percorsi di istruzione terziaria svolti in Italia negli ultimi anni dalle Università e rilevati dal Consorzio interuniversitario AlmaLaurea, che rappresenta 78 Atenei e circa il 90% dei laureati usciti dal nostro sistema universitario.
Riportiamo i dati relativi ai laureati magistrali a cinque anni dal conseguimento del titolo (avvenuto nel 2016) della classe di laurea Scienze dello spettacolo e produzione multimediale – fortemente rappresentativa delle discipline che afferiscono all’area della cultura – presenti nel Rapporto sul Profilo e sulla Condizione occupazionale dei laureati del 2022.
Il tasso di occupazione si è attestato al 79,7% (contro il 72,5% dell’omologa categoria indagata l’anno precedente): i lavoratori a tempo indeterminato sono il 44,7% (vs il 44,6%), quelli a tempo determinato il 27,3% (vs il 24,4%), gli autonomi sono il 22,6% (vs il 23,1%), mentre le altre forme contrattuali applicate sono numericamente poco significative; il 17,5% (vs il 21,1%) degli incarichi sono però part-time. Si registra inoltre una percentuale di neet (persone che non lavorano e non cercano lavoro) pari al 9,5% (vs il 12,9%). Per quanto concerne le dinamiche di genere, lavora l’81,3% (vs il 75,5%) delle laureate e l’81,6% (vs il 72,8%) dei laureati, i quali guadagnano mediamente il 10% in più delle colleghe. Come nel resto del mercato del lavoro si osservano inaccettabili dislivelli sul versante salariale, ma anche nell’attribuzione delle responsabilità. Vogliamo qui citare un fenomeno spesso sottovalutato, anch’esso analizzato da AlmaLaurea: la “fuga dei cervelli” dei laureati italiani nelle discipline culturali. Nel 2020 la quota degli occupati all’estero era decisamente superiore a quella del totale dei laureati (l’8,4% rispetto al 6,7%).
Complessivamente si registra nel 2021 una ripresa (seppure contenuta) rispetto all’annus horribilis 2020 dell’occupazione dei laureati magistrali – anche grazie agli interventi pubblici statali e degli enti territoriali – nonostante le misure di contenimento della crisi pandemica, ferme restando le criticità ad essa preesistenti.
Nella formazione dei professionisti della cultura ricopre un ruolo centrale il sistema dell’Alta Formazione Artistica Musicale e Coreutica (AFAM) che conta ben 159 istituzioni, il 54,1% appartenenti all’Area Musicale e Coreutica e le restanti all’area artistica (che comprende il design, la moda e il teatro). Nell’anno accademico 2020-2021 le iscrizioni hanno riguardato complessivamente circa 80.700 unità – il 15,6% dei quali stranieri; il 37,3% ha optato per Istituti dell’area musicale e coreutica e il 62,7% per strutture dell’area artistica; nel 2020 i diplomi accademici conseguiti sono stati circa 18.300 mila (negli ultimi dieci anni il numero dei diplomati è aumentato del 66%). Complessivamente le donne si diplomano in misura maggiore rispetto agli uomini: sono il 58,4%.
Le ultime elaborazioni fornite da AlmaLaurea sull’occupazione dei diplomati AFAM riportano che a distanza di uno o due anni dal conseguimento del titolo (la rilevazione non contempla periodi più lunghi), coloro che lavorano sono circa la metà; di essi solo un quinto svolge una professione nel campo artistico-espressivo e l’attività professionale prevalente degli occupati è l’insegnamento.
Complessivamente si rilevano discrasie e disallineamenti, riconducibili in certa misura, secondo gli studi in materia, al mismatch tra le competenze acquisite nel percorso formativo e quelle richieste da un mercato del lavoro dinamico, in continua evoluzione come quello culturale. Per contro la Commissione Europea non molto tempo fa, nella Nuova agenda dell’istruzione superiore prefigurava per gli istituti di istruzione superiore: «Un ruolo più ampio nello sviluppo locale e regionale, un più ampio collegamento con il mondo imprenditoriale e le istituzioni pubbliche».
Stante l’attuale situazione del paese, è del tutto evidente che i prossimi anni saranno decisivi per l’occupazione culturale, e il ruolo dell’Università, del sistema AFAM e degli Istituti Tecnici Superiori (che non abbiamo qui affrontato), sarà sempre più determinante.
Antonio Taormina
Analista culturale