È mia convinzione che anche chi si occupa di musica d’arte non possa prescindere da una conoscenza delle culture musicali di tradizione orale; io stessa, come medievista, mi definisco “simpatizzante” etnomusicologa: l’approccio etnomusicologico è infatti tra quelli che prediligo per affrontare coi miei studenti alcuni snodi fondamentali della nostra storia della musica preclassica. Pensiamo, per esempio, al passaggio dalla polifonia di tradizione orale, a quella intesa come ars, per la prima volta teorizzata nell’anonimo trattato Musica Enchiriadis, la cui stesura risale alla fine del IX secolo. Prima di illustrare agli studenti i contenuti di questo testo, diffuso in tutta Europa ancora nel XV secolo, ritengo interessante aprire una parentesi su alcune annotazioni di viaggio dello storico gallese Giraldus Cambrensis (1146-1223), ampliando una riflessione già avviata da Hans Heinrich Eggebrecht. Giraldus, nella sua Descriptio Cambriae, narra i diversi usi dei popoli britannici – compreso il loro modo di cantare –, confrontando due diverse pratiche vocali. Spiega che, mentre nella propria regione le voci procedono nota contro nota, nel Northumbria una voce solista «vocalizza» poggiando su un «mormorio sottostante».
Questo preambolo etno-storico è solo apparentemente estraneo al discorso sulla musica d’arte, in quanto le prassi descritte da Giraldus vanno a rappresentare due fra le principali condotte in cui si realizza l’ars polifonica ai suoi albori. La prima è rappresentata dall’organum parallelo, la cui trasformazione, una volta abbandonato lo stretto parallelismo tra le voci, porterà allo stile definito discantus, ovvero nota contro nota; la seconda consiste invece nel cosiddetto organum purum, in cui l’andamento melismatico della voce superiore è accompagnato da suoni tenuti della voce inferiore (il tenor).
Prima di passare alla visione e all’ascolto dei brani medievali, spesso propongo agli studenti brani polifonici della tradizione orale europea, in cui si possano riscontrare prassi esecutive simili a quelle appena illustrate. Il canto melismatico su un bordone vocale si ritrova in diverse tradizioni: albanese, georgiana, greca. Il canto nota contro nota è ampiamente rappresentato nella nostra Penisola: si pensi al tir, canto di tradizione orale di Premana (Lecco). Ma per uscire dai confini nazionali – ed anche dalle “tranquillizzanti” armonie per terze e seste – propongo l’ascolto dei canti dell’isola croata di Krk, dove tre voci si muovono parallelamente a distanza di 2a minore e 3a minore, andandosi a ricongiungere all’unisono alla fine di ogni strofa. Questi ascolti creano in genere reazioni contrastanti: per alcuni risultano fastidiosi, per altri attraenti.
Il percorso appena illustrato punta ad evidenziare tre aspetti che vorrei rendere chiari alle mie classi. Innanzitutto, che la polifonia (e la sua teorizzazione) è una delle specificità della nostra musica europea, documentata già dal VII secolo e non ugualmente presente in altre culture musicali. In secondo luogo, che le scale, così come i concetti di consonanza e dissonanza, sono costruzioni culturali, che quindi possono variare nel tempo e nei luoghi. Queste due precisazioni debbono condurre ad una riflessione più alta: che le musiche popolari non sono da snobbare, perché la musica d’arte occidentale è solo uno dei tanti aspetti in cui si incarna il fare musica nel genere umano. Ovviamente, dietro quest’ultimo punto, è implicito un messaggio di inclusività e di rispetto della diversità.
Alessandra Fiori
Docente di Storia della musica
Istituto musicale “Luigi Boccherini”, Lucca
Ai fasti dell’opera lirica in Georgia non è estranea una robusta tradizione di polifonia a cappella, non imitativa ma lineare, che rimonta al Medioevo e dal 2001 è iscritta nel patrimonio immateriale dell’UNESCO. Molto più che folklore per turisti: ancora la si può incontrare nelle aree urbane e rurali, nelle chiese e nei monasteri; vuoi a servizio del culto cristiano ortodosso, vuoi durante occasioni sociali come la _supra_, il banchetto rituale che solennizza battesimi, matrimoni e funerali.
La combinazione di canto e danza popolare integra il codice genetico di una nazione guerriera, stretta dalla tarda antichità fino ad oggi nella morsa di imperi ostili eppure capace di rialzarsi dopo ogni invasione e perfino di crearsi un impero tutto suo, che fra XI e XIII secolo tenne testa a Bizantini, Turchi selgiuchidi e sultani Ayyubidi trasformando il Mar Nero e il Caspio in laghi georgiani.
Sono danze acrobatiche punteggiate dal cozzo di spade e scudi, danze di corteggiamento, di lutto, di festa; ma soprattutto maestosi inni eroici e di protesta sociale come quel _Chakrulo_ per tre voci virili che nel 1977 fu spedito nel cosmo sulla sonda spaziale Voyager fra i 29 capolavori musicali dell’umanità.
Ascolto capace di affascinare eventuali extraterrestri, pensò la NASA: due solisti si avvicendano sullo sfondo di un bordone corale intrecciando linee vocali riccamente ornamentate e saettanti verso l’acuto, mentre agli accordi consonanti si mescolano scabre dissonanze di seconda, settima e nona. Al colmo del virtuosismo nelle parti superiori sta il _krimanchuli_, tecnica paragonabile allo yodel: rapidi e ostinati salti di registro sopra sillabe asemantiche quali haralo, harulailo e simili. Fra spiazzanti modulazioni entro un sistema di scale modali che ricorda alla lontana il canto popolare corso, sardo e balcanico, spuntano quasi-recitativi e formule cadenzali a voce piena: un’esplosione di adrenalina che procura deliziosi brividi anche all’orecchio europeo meglio temperato.
Commenta Lado Ataneli, potente quanto mellifluo baritono verdiano, pucciniano e verista nonché cultore della canzone napoletana d’arte: “In Georgia tutti cantiamo in coro; in pubblico e in famiglia. I cori tradizionali sono a tre, quattro e sette voci, per cui emissione e corretta intonazione si apprendono sin dall’infanzia come una lingua naturale. Così, nonostante il nostro famoso individualismo, cantando insieme ci si ascolta e ci si aiuta a vicenda”.