Daniele Sabaino
Pavia-Cremona
Note a margine d’una questione culturale
La prima parte del presente intervento riprende la relazione letta al Convegno nazionale “Università e Scuola. Le lauree specialistiche abilitanti” promosso dalla Scuola Interuniversitaria Siciliana di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario (SISSIS), svoltosi a Messina il 23-24 aprile 2004 nella Facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali dell’Università degli Studi; la seconda parte (il Post-scriptum) è stata scritta appositamente per questa pubblicazione. Ringrazio gli organizzatori del Convegno di Messina per avermi cortesemente permesso di riutilizzare tanto ravvicinatamente le pagine approntate per gli Atti di quell’occasione.
Non sono trascorsi moltissimi anni da quando chi scrive, giovane studente dell’Alma Ticinensis Universitas, ogni volta che alla domanda “cosa studi all’università?” rispondeva “musicologia”, si sentiva invariabilmente ribattere “ah… interessante; e cosa suoni?” — mentre a nessuno degli amici di allora, allorché dichiarava “studio storia dell’arte” veniva mai rimbeccato “ah… e che cosa dipingi?” (o tanto meno “che cosa scolpisci?”). Non sono trascorsi moltissimi anni: e tuttavia — mi riferiscono i miei studenti — la situazione, in linea generale, non è granché mutata.
Nell’ordinaria percezione culturale — nell’opinione del cittadino mediamente colto —, a tutt’oggi, ‘musica’ significa infatti e in via pressoché esclusiva ‘attività pratica’, produzione organizzata di suoni eseguiti vocalmente o strumentalmente. È ancora estranea al sentire comune l’idea che ‘musica’, oltre che saper fare, è anche sapere; che la musica, in altri termini, è anche ‘oggetto di conoscenza’, e che, di conseguenza, ad essa inerisce una riflessione «concettualizzabile e verbalizzabile nei termini delle discipline umanistiche e scientifiche, così come avviene per le arti della parola e dell’immagine visiva»;1 che esiste, insomma, una musicologia senza la quale la musica sarebbe intrinsecamente e filologicamente meno sicura, intellettualmente e analiticamente meno comprensibile, culturalmente e storicamente meno definita e persino meno presente a sé stessa anche e proprio nel suo aspetto pratico-compositivo-esecutivo (a dimostrazione, fra l’altro, che la ricerca e la didattica musicologica non sono autoriflessive, non riguardano solo una ristretta cerchia di addetti ai lavori, ma raggiungono — quotidianamente, anche se il più delle volte inconsapevolmente — tutti coloro che, a qualunque titolo, si interessano o “praticano” qualsiasi genere di musica).
La noncuranza verso la musicologia, in verità, è atteggiamento non esclusivo della Pubblica Opinione; è esibita, sin troppo — e molto più colpevolmente —, anche dal legislatore e dal regolamentatore ministeriale.
Un caso per tutti. Se per accedere all’insegnamento della Letteratura italiana o della Fisica nelle scuole secondarie di ogni ordine e grado si richiedono percorsi formativi e titoli di studio ben precisi e definiti, secondo l’ordinanza MIUR del 7 ottobre 2002 (Servizio per gli Affari generali e per il Sistema informativo – Alta Formazione Artistica e Musicale, prot. 1672), il titolo di studio pertinente per insegnare Storia ed Estetica musicale o per svolgere il ruolo di Bibliotecario musicale nei Conservatorii di musica della Repubblica è da ritenersi «qualunque diploma di Conservatorio», mentre lauree specifiche come quelle in Musicologia, in DAMS/Musica o in Conservazione dei Beni culturali (indirizzo Beni musicali) sono da considerarsi ‘titoli artistico-culturali e professionali’ e da valutarsi, pertanto, alla stregua di qualsivoglia altro «diploma di laurea, di specializzazione, di dottorato di ricerca» rilasciati da Università della medesima Repubblica — dal che si deduce che, per i funzionari del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, nei confronti e per la trasmissione della Storia della musica una laurea in Musicologia, in Veterinaria o in Scienze delle Attività giudiziaria e penitenziaria «pari sono». E non certamente dall’ottobre 2002, posto che l’ordinanza in questione non fa che ribadire una situazione che, ad onta d’ogni avversa mozione protesta istanza e quant’altro, si perpetua, immutata, da decenni: come se la musicologia in genere, e la musicologia universitaria in specie, non fossero discipline rispettabili; o — più semplicemente — come se fossero discipline niente affatto esistenti.
Causa di tanta disinvoltura normativa, d’altra parte (mi si perdoni, per questa volta, il sorvolo dei chiaroscuri), è il solco che storicamente, in Italia, ha prima separato la cultura musicale dalla cultura tout court (professionalizzando all’estremo l’insegnamento dell’arte in nome della categoria romantica della ‘dote’ che può dirozzarsi, non certo infondersi), e ha quindi giustapposto attività e riflessione musicale — la prima gelosamente custodita e portata avanti ieri come oggi dai Conservatorii, la seconda avviata, nel nostro Paese, nelle medesime scuole per impulso e importazione dell’accademica Musikwissenschaft tedesca, ma oggi sempre più radicata e incardinata nei luoghi abituali della ricerca, le Università (le sole, per inciso, ove i docenti della disciplina, al pari d’ogni collega dell’istituzione, sono tenuti a render regolare e periodico conto del progredire della propria attività scientifica).
Una condizione senza eguali, come si vede, giacché l’unico altro scenario teoricamente similare — l’àmbito delle arti plastiche e figurative — non ha (mai) conosciuto ripartizioni altrettanto im-pertinenti o distinzioni pragmatiche altrettanto vistose — o, quanto meno, non ha mai sentito il bisogno di teorizzarne ideologicamente la necessità.
Una condizione che, anziché mitigata — inutile compiacere gli irenismi di facciata —, s’è piuttosto complicata a seguito di alcune ripercussioni conseguenti la legge 508/1999 (Riforma delle Accademie di Belle Arti, dell’Accademia nazionale di Danza, dell’Accademia nazionale di Arte drammatica, degli Istituti superiori per le Industrie artistiche, dei Conservatori di musica e degli Istituti musicali pareggiati). Con quella legge fondativa, infatti, il mondo dell’alta formazione artistica e musicale (un mondo nel quale l’aggettivo ‘alta’ acquisterà pieno senso solamente allorquando i Conservatorii, dismesse le fasce formative inferiori, avranno finalmente concentrato il proprio potenziale curricolare nei nuovi diplomi di primo e di secondo livello: ché altrimenti, applicando la logica del passato e della fase di transizione, si potrebbe denominare la traiettoria ‘scuola media di primo grado → liceo classico → corso di laurea in lettere’, ad esempio e in piena legittimità, alta formazione umanistica), anziché entrare a pieno titolo nel sistema universitario nazionale, come allora auspicato da molti — innanzitutto dall’ADUIM, l’Associazione fra Docenti Universitari Italiani di Musica —, preferì costituirsi in sistema separato e parallelo, non facilitando certo, con ciò, la permeabilità ambientale e ordinamentale tra i due contesti. Alcuni recenti decreti dell’alveo attuativo della legge, inoltre, lasciano trasparire una tendenza al protezionismo sui fatti e sulle cose della musica, a sovrabbondante tutela delle prerogative degli Istituti di Alta Formazione Artistica e Musicale, non solo abnorme, ma anche francamente incongrua, oltre che non compartecipata (mi si assicura) da buona parte degli attuali Conservatorii di Musica.
Anche in questo caso, un solo esempio — a riguardo, precisamente, della formazione degli insegnanti —, più esplicativo di mille discorsi di principio. Il Decreto legge n. 97 dello scorso 7 aprile (pubblicato nella «Gazzetta ufficiale» n. 88 del 14 aprile 2004), al comma 1, lettera a) dell’articolo 2 (“Disposizioni speciali per il conseguimento dell’abilitazione all’insegnamento”) stabilisce che gli «insegnanti di scuola secondaria in possesso della specializzazione per il sostegno agli alunni disabili … che siano privi di abilitazione all’insegnamento nelle scuole di istruzione secondaria, ma in possesso di un diploma di laurea o del diploma ISEF o di accademia di belle arti o di istituto superiore per le industrie artistiche … e che abbiano prestato servizio su posti di sostegno per almeno 360 giorni dal 1° settembre 1999» alla data di entrata in vigore del decreto sono ammessi a «corsi speciali di durata annuale» istituiti presso le Università al fine di acquisire l’abilitazione disciplinare congruente col proprio titolo di studio. Il comma seguente dello stesso decreto stabilisce quindi che, al medesimo fine, «gli insegnanti in possesso dei diplomi rilasciati dai conservatori di musica o istituti musicali pareggiati, che siano privi di abilitazione all’insegnamento e che abbiano prestato almeno 360 giorni di servizio complessivi in una delle classi di concorso 31/A o 32/A dal 1° settembre 1999 alla data di entrata in vigore del presente decreto, sono ammessi, per l’anno accademico 2004-2005, ad un corso speciale di durata annuale istituito nell’ambito delle scuole di didattica della musica presso i conservatori,2 secondo modalità definite con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca» — ossia disconosce completamente (e per l’ennesima volta) che, nella vigente architettura della formazione iniziale all’insegnamento, sede di corsi abilitanti per le classi di concorso 31/A e 32/A non sono solo le Scuole di Didattica della musica annesse ai Conservatorii, ma anche (e da prima di quelle) gli indirizzi Musica e Spettacolo delle SSIS universitarie: ragion per cui non si comprende per quali motivazioni, se non protezionistiche o determinate da una surrettizia volontà di modificare per somma di fatti compiuti lo status quo, all’Università debba essere impedito addirittura per legge quel che al Conservatorio è altrettanto prescrittivamente intimato di svolgere: e ciò, fra l’altro, proprio nel momento in cui la riflessione sulla musica, al pari d’ogni altra disciplina dell’universitas studiorum, ha acquisito una vastità d’articolazione interna — protesa in egual misura verso le scienze letterarie, le scienze umane e le scienze matematiche e fisiche — quale mai prima d’ora nella sua storia più che bimillenaria: e dunque con tutte le necessità di cooperazione intra- ed interdisciplinare ben note ai ricercatori dell’accademia.
Disdegni del genere — uniti ad altri che per brevità non cito, ma tra i quali non posso non ricordare, per la prossimità ai temi qui trattati non meno che per l’intrinseca gravità del fatto, l’assoluta nonchalance con la quale il MIUR ha ritenuto di escludere (unico caso fra tutte le discipline del curricolo) qualsivoglia rappresentanza della musicologia universitaria dalla commissione che sta elaborando le linee-guida dei profili educativi (musicali) dei futuri licei “riformati” — non contribuiscono certo a rasserenare gli animi e le preoccupazioni; com’è facile immaginare, rischiano anzi di amplificare i disagi e le occasioni nelle quali, dall’una e dall’altra parte, ci si ferma alla contesa di questa o quella spoglia, invece di porre mano, dialogando in maniera schietta e costruttiva, alla progettazione di luoghi e spazi di promozione complessiva del fenomeno ‘musica’, in tutto lo spettro significativo del termine.
Le cause prossime di quanto siamo andati finora registrando sono certamente molteplici: volontà politica; miopia culturale; ansia di preservare, incorrotti, piccoli orticelli; inadeguatezze di vario genere e specie, eccetera. Non è azzardato, tuttavia, individuare la radice remota di questi stessi atteggiamenti nella (scarsa) attenzione riservata alla musica dal sistema scolastico nazionale. Nella scuola, infatti, «la musica è generalmente assente in ogni ordine e grado se considerata per il suo valore culturale e normativo, e per la sua costruttiva interrelazione con gli altri saperi; è presente, al momento quasi esclusivamente, come una sorta di gioco utile alla scoperta gioiosa del piacere sensibile e uno stimolo della creatività, un oggetto particolare, diverso dalle altre discipline, non nel senso ovvio della sua specificità, ma in quanto scisso dai suoi contenuti culturali e dalla sua stessa storia».3
Prima di dibattere del curricolo degli insegnanti di Musica e delle modalità e dei luoghi più idonei alla loro formazione, occorrerà dunque stabilire quale ‘musica’ si ritiene essi debbano andare a insegnare; quale sia, in altri termini, lo specifico disciplinare sulla base del quale saranno chiamati a interagire con gli studenti e con i colleghi di tutte le altre discipline e attività.
Non è questa la sede per entrare nei dettagli dei diversi modi con il quali il sostantivo ‘musica’ può essere declinato nei diversi ordini di scuole e in rapporto alle diverse fasce d’età e di maturazione scolare. È convinzione diffusa della musicologia universitaria, tuttavia, che, proporzionalmente al progredire dell’età e dello sviluppo cognitivo, affettivo ed emotivo dei discenti, l’asse della musica-poiesis debba lasciare sempre più spazio all’asse della musica-episteme (ferma restando, naturalmente, la necessità di non perdere di vista l’unità del fenomeno). Che nel trascorrere dal primo al secondo ciclo d’istruzione, detto altrimenti, il fuoco dell’attenzione — senza negare o azzerare il senso di una pratica musicale non-professionale — debba sempre più indirizzarsi verso il valore culturale della musica, verso le compenetrazioni storiche e contemporanee tra questa e l’intera enciclopedia del sapere, e anche verso le categorie fondamentali con le quali la riflessione sulla musica si avvicina all’oggetto del proprio studio e comprende e definisce sé medesima.
È a questo punto — e solo a questo punto — che, secondo noi, ha senso porre la questione della formazione degli insegnanti di Musica, il cui presente e le cui prospettive illustrerò fra un attimo.
Prima di inoltrarmi compiutamente in argomento e di avviarmi così alla conclusione, permettetemi però una considerazione e un auspicio a margine. Non credo esista musicologo, di qualunque formazione, residenza e osservanza, che per i futuri insegnanti di Musica non desideri e non auguri una formazione disciplinare e didattica il più possibile ampia, ricca di stimoli culturali a tutto campo e aperta, in ogni momento, alle differenti angolazioni interdisciplinari con le quali la cultura musicale si è sempre posta — e tuttora si pone — strutturalmente, e non episodicamente, in dialogo. È quindi realistico e non utopico sperare che, a tal proposito, la corrispondenza sia (finalmente) biunivoca — che qualche minuto della formazione curricolare dei futuri insegnanti di Materie letterarie, di Storia, di Filosofia (ma anche di Scienze, di Arte, di Matematica…) prenda in considerazione l’arricchimento di senso che le diverse dimensioni della realtà ‘musica’ possono offrire ai loro stessi saperi (professionali e didattici)? È possibile, insomma, che in un futuro ragionevolmente prossimo non avvenga più che si ascriva a biasimo d’un docente il non aver mai visto Guernica o una scultura di Michelangelo, ma non altrettanto il non aver mai ascoltato la Musica per archi, celesta e percussioni o una nota — qualsiasi nota — di Orlando di Lasso?
Ma torniamo pure al percorso formativo dei docenti di Musica per osservarne, come abbiamo detto, presente e prospettive.
Presente. — Nel panorama normativo che si è dischiuso con l’istituzione delle SSIS, la preparazione all’insegnamento nelle classi di concorso 31/A (Educazione musicale negli Istituti di istruzione secondaria di secondo grado) e 32/A (Educazione musicale nella Scuola media) è l’unica per la quale siano attualmente previsti due percorsi abilitanti distinti e giuridicamente indipendenti: (a) il percorso universitario entro gli Indirizzi Musica e Spettacolo delle SSIS, al quale possono accedere (tramite concorso) tutti coloro che sono in possesso di uno dei titoli di ammissione al “vecchio” concorso ordinario (diploma di Conservatorio, diploma universitario in Paleografia e Filologia musicale, laurea in Discipline musicali), e che si conforma in tutto e per tutto all’ordinamento e alla regolamentazione delle Scuole di Specializzazione; (b) il percorso conservatoriale entro le Scuole di Didattica della musica (ufficializzato a posteriori con la legge 268/2002 e a tutt’oggi ancora quadriennale), al quale sono ammessi soltanto coloro che possiedono un diploma o hanno superato l’esame di un corso medio di Conservatorio, e nel cui curriculum (fra l’altro) l’insegnamento psico-pedagogico generale e disciplinare è affidato a un solo docente e il tirocinio in itinere non è mai stato reso obbligatorio.
Prospettive. — Nello scenario delle condende lauree specialistiche abilitanti, paradossalmente, la situazione non si semplifica ma si complica, in ragione delle «preminenti finalità di approfondimento disciplinare» richieste dalla lettera b) del comma 1 dell’art. 5 della legge 53/2003 (la cosiddetta “riforma Moratti”). A seconda della declinazione musicologica e didattica che si attribuisce al nesso ‘approfondimento disciplinare’ si possono infatti pronosticare almeno tre scenari alternativi:
(1) la prosecuzione delle condizioni attuali, vale a dire il mantenimento del doppio canale in un regime di ‘libero mercato’ e ‘libera concorrenza’;
(2) la collaborazione, vuoi spontanea vuoi in qualche modo normata, tra Università e AFAM;
(3) il compimento del protezionismo di cui sopra, ossia l’affidamento totale ed esclusivo della formazione degli insegnanti di Musica delle scuole di ogni ordine e grado agli Istituti AFAM.
Lo scenario (3) è senza dubbio il più nefasto, giacché, realizzandolo, si verrebbe a negare agli insegnanti di Musica, e solo ad essi, «quel principio dell’unità e della pari dignità della formazione docente che significa riflessione epistemologica, acquisizione della consapevolezza pedagogica, e di obiettivi e metodi comuni, e ancora — per la musica — l’abbattimento delle barriere che hanno finora opposto alcuni docenti ad altri, prima ancora che alcune discipline ad altre».4
L’eventualità (1) sembra meno imprudente; forse per questo ha più d’un sostenitore, ed è di solito motivata con la credenza — a metà strada tra il voto e l’ingenuità — che il libero mercato affilerà la concorrenza e farà lievitare verso l’alto offerta e contenuti. Non so se e quanto un modello del genere funzioni sempre e perfettamente per le imprese; in tema d’istruzione, tuttavia (e di un’istruzione non generica ma finalizzata a un ben preciso obiettivo, qual è quella vòlta a preparare i futuri insegnanti), alcuni di noi hanno il timore che — soprattutto ove e in quanto finanziamenti sponsorizzazioni valutazioni nazionali eccetera si giochino sul filo dei numeri, dei crediti quantitativamente acquisiti nell’unità di tempo, nell’osservanza regolare e regolarizzata di scansioni temporali predefinite e predeterminate — qualcuno (da ambo le parti) possa prima o poi cedere alla tentazione di conformarsi a modelli più invoglianti che rigorosi: con evidente detrimento dei discenti, della musica, della scuola e della collettività.
Non resta quindi — è ovvio — che la strada della collaborazione. Benvenuta e benefica per Università e Conservatorii, direi, purché ci si intenda sin dal principio sulla natura e sulle forme con le quali essa può più proficuamente organizzarsi e dispiegarsi. Qualche cordata (musicale e didattica), ritenendo evidentemente il Conservatorio sede naturale e indiscutibile d’ogni cultura musicale, prefigura infatti e lavora per una “cooperazione” nella quale tutta la competenza disciplinare promani dall’AFAM (alias Scuole di Didattica della musica) e in cui l’apporto dell’Università (e nella fattispecie le Facoltà di Scienze della Formazione, o le attuali “aree 1” delle SSIS) non ecceda l’àmbito della preparazione socio-psico-pedagogica generale.5 Una “cooperazione” alquanto distonica, secondo i musicologi universitari e l’ADUIM, dal momento che non configura alcuna effettiva integrazione di percorsi formativi, ma si limita a giustapporre poco più che (es)temporaneamente due diversi territori culturali non altrimenti “interfacciati” (come oggi s’usa dire). Una “cooperazione”, soprattutto, di cui è difficile preconizzare la produttività ove pretenda (come di fatto pretende) di prescindere dalla multivalente mediazione dell’insieme della musicologia e dal fluire della ricerca disciplinare (e — ogni tanto s’oblia — anche didattico-disciplinare) che quotidianamente circola nelle Facoltà e nei Dipartimenti universitari.
È palese, perciò, che una reale ed efficace collaborazione in materia non può che passare, da un lato, dalla messa a punto di più pertinenti meccanismi di compartecipazione, e dall’altro dalla valorizzazione dello specifico culturale e disciplinare, che anche nella formazione degli insegnanti di Musica può venire dall’universitas studiorum, attiva in tutte le sue sfaccettature e avvicinata, nel concreto, attraverso il prisma della sua coloritura peculiare — la musicologia che vive, lavora e produce, appunto, nelle Università.
Riuscire nell’impresa, crediamo, significa riconnettere sotto ogni aspetto cultura musicale e cultura senza aggettivi.
Non riuscirvi avrebbe il solo effetto di ghettizzare ulteriormente la musica, a innegabile danno non (sol)tanto di essa, ma anche del cittadino di oggi e di domani.
Per questo — e non certo per sterile difesa corporativa, o per penuria d’altri oggetti d’interesse — i musicologi universitari tengono a che la questione sia nota e presente anche ai colleghi dei propri e degli altri Atenei.
Perché la musica, in fondo, è dimensione costitutiva anche della loro — della vostra — esistenza. Se non come docenti, certamente come uomini e donne della cultura e della respublica.
Post-scriptum
Quando, nello stendere le pagine che a Messina avrei letto di fronte a un’attenta platea di colleghi docenti da anni impegnati sul fronte della formazione all’insegnamento delle più diverse discipline, mi riferivo ad alcuni — allora — recentissimi provvedimenti legislativi che lasciavano «trasparire una tendenza al protezionismo sui fatti e sulle cose della musica, a sovrabbondante tutela delle prerogative degli Istituti AFAM, non solo abnorme, ma anche francamente incongrua», e che parevano guidati da nessun altro intendimento se non «da una surrettizia volontà di modificare per somma di fatti compiuti lo status quo», mai avrei immaginato che in ciò che andavo scrivendo s’annidasse un’inconsapevole profezia di quel che, di lì a pochi mesi, il MIUR avrebbe posto in essere a totale inveramento del corsivo dell’ultima citazione e a incredulo sconcerto di tutte le SSIS/Musica (e questa volta, per fortuna, non solo loro, ma tale da raggiungere e coinvolgere persino la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane).
Riepilogo i fatti — giacché la loro prossimità attinge ancora ai colori della cronaca —, aggiungendo in coda qualche commento essenziale, a futura memoria.
Nell’intento di dare attuazione alla legge 143/2004 — un provvedimento che converte in legge, con modificazioni, il Decreto legge 97/2004 —, il Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ha infatti emanato in data 14 luglio 2004 un apposito decreto, col quale — «VISTO il decreto ministeriale 18 maggio 2004 che definisce, per l’anno accademico 2004-2005 , le modalità ed i contenuti della prova di ammissione alle Scuole di Specializzazione di cui all’articolo 1, comma 1, lettera b) della legge 2 agosto 1999, n. 264; VISTO il decreto legge 7 aprile 2004, articolo 2, convertito con modificazioni dalla legge 4 giugno 2004, n. 143, col quale sono state introdotte disposizioni per il conseguimento dell’abilitazione all’insegnamento nelle materie artistiche e musicali, da effettuare presso le Accademie di belle arti e i Conservatori di musica; CONSIDERATO che per effetto del succitato decreto legge devono essere soppressi i corsi di specializzazione per l’insegnamento secondario nel settore artistico e musicale istituiti presso le università, non essendo legittimato un doppio canale formativo; RITENUTA la necessità di modificare conseguentemente il predetto decreto ministeriale 18 maggio 2004, nelle parti attinenti il settore artistico e musicale» — si stabilisce la soppressione delle prove d’ammissione al VI ciclo delle SSIS relativamente agli indirizzi di Musica e Spettacolo (nonché agli indirizzi di Arte e Disegno: il che ha sorpreso molti colleghi universitari meno avvezzi a dibattere le questioni di principio a cui abbiamo dedicato il corpo dell’intervento), e, conseguentemente, si mette ad ulteriore e forse fatale rischio il presupposto scientifico e fattuale dell’unitarietà della formazione dei futuri insegnanti.
Le prese di posizione che si sono susseguite a ritmo incalzante, nelle settimane seguenti la notifica del provvedimento — a firma, oltre che (è ovvio) del direttivo dell’ADUIM, di coordinatori d’indirizzo, direttori SSIS, presidi di Facoltà, presidente della Conferenza dei direttori delle SSIS, rettori di Università e (last but not least) dell’assemblea generale della CRUI, e con l’interessamento di quotidiani e politici locali e nazionali —, hanno evidenziato le numerose contraddizioni e incongruità che il decreto esibisce tanto nelle premesse quanto nelle conseguenze e che possono essere riassunte come segue:
(1) l’articolo di legge cui si riferisce il decreto non concerne il percorso ordinario di abilitazione, ma riguarda alcuni casi particolari chiaramente identificati dal medesimo articolo — non per nulla titolato “Disposizioni speciali per il conseguimento dell’abilitazione all’insegnamento” — ossia (ricordo) i casi degli «insegnanti in possesso dei diplomi rilasciati dai conservatori di musica o istituti musicali pareggiati, che siano privi di abilitazione all’insegnamento e che abbiano prestato almeno trecentosessanta giorni di servizio complessivi in una delle classi di concorso 31/A o 32/A dal 1° settembre 1999 alla data di entrata in vigore del presente decreto», i quali «sono ammessi, per l’anno accademico 2004-2005, ad un corso speciale di durata annuale istituito nell’ambito delle scuole di didattica della musica presso i conservatori»;
(2) non si comprende pertanto come si possa ritenere che il predetto articolo — di fatto, una sanatoria — giunga a modificare anche il percorso ordinario di abilitazione così come disciplinato dalla legge 341/1990 (fondativa delle SSIS) e dai successivi decreti attuativi; e come di conseguenza si possa porre addirittura a premessa il fatto che «devono essere soppressi i corsi di specializzazione per l’insegnamento nel settore artistico e musicale istituiti presso le università» (una “premessa” che, non discendendo dall’applicazione né consequenziale né attuativa di alcun precedente provvedimento legislativo, si rivela infine per quel che avevo adombrato e temuto a Messina, ossia una precisa determinazione politico-culturale che si concretizza — appunto — nella «surrettizia volontà di modificare per somma di fatti compiuti lo status quo»);
(3) stupisce quindi che, a motivazione della revoca di detta autorizzazione, il Ministro ponga poi l’illegittimità di un «doppio canale formativo»; un doppio canale, in verità, posto in essere dal legislatore medesimo (sia pure «fino all’entrata in vigore di specifiche norme di riordino del settore»), il quale ha derogato in più occasioni al principio dell’unitarietà di fondo nella formazione di tutti gli insegnanti che egli stesso aveva stabilito con la legge 341/1990 e che ha costituito la ragion d’essere della nascita delle SSIS:
(a) una prima volta addirittura retroattivamente con la legge 268/2002, che, nel convertire con modificazioni il Decreto legge 212/2002, stabiliva all’art. 6, comma 1 che, «allo scopo di determinare il valore e consentire l’immediato impiego dei titoli rilasciati … secondo l’ordinamento previgente alla data di entrata in vigore della legge 21 dicembre 1999, n. 508, all’articolo 4 della legge medesima sono apportate le seguenti modificazioni: “a-bis) il comma 2 è sostituito dal seguente:6 Fino all’entrata in vigore di specifiche norme di riordino del settore, i diplomi conseguiti al termine dei corsi di didattica della musica, compresi quelli rilasciati prima della data di entrata in vigore della presente legge, hanno valore abilitante per l’insegnamento dell’educazione musicale nella scuola e costituiscono titolo di ammissione ai corrispondenti concorsi a posti di insegnamento nelle scuole secondarie, purché il titolare sia in possesso del diploma di scuola secondaria superiore e del diploma di conservatorio”» (una norma, en passant, con la quale il legislatore modificava a posteriori il valore di un titolo di studio a preferenza di altri senza però motivare in alcun modo perché identico riconoscimento non sia stato esteso — posto che lo scopo del comma fosse davvero «soprattutto» di «eliminare situazioni penalizzanti per i possessori dei “vecchi titoli”», in considerazione sia del fatto che il testo primitivo della legge 508/1999 riduceva l’«ambito di applicabilità ai soli diplomi “conseguiti” presso le accademie e i conservatori “anteriormente alla data di entrata in vigore della legge”», sia del fatto che, di conseguenza, «considerata la complessità di attuazione» della legge stessa, che ancora nel 2002 richiedeva «tempi necessariamente lunghi», la disposizione appariva «ingiustificatamente discriminante nei confronti di coloro che conseguono i titoli previsti dall’ordinamento previgente fino al rilascio dei nuovi diplomi accademici di primo e di secondo livello»7 — ad esempio anche ai diplomati universitari in Storia e Didattica della musica, un corso di diploma universitario attivo fino alla recente riforma nell’Università degli Studi di Pavia e al quale, analogamente alle Scuole di Didattica della musica, si accedeva in forza del possesso di un diploma di Conservatorio);
(b) una seconda volta in seguito all’art. 5, comma 2 della legge 53/2003, il quale amplia ulteriormente la competenza di Conservatorii e Accademie in materia di abilitazione all’insegnamento con una norma direttiva per gli emanandi decreti delegati (e pertanto non operante fino a quando tali decreti non saranno in vigore) stabilendo che «con i decreti di cui all’articolo 1 sono dettate norme anche sulla formazione iniziale svolta negli istituti di alta formazione e specializzazione artistica, musicale e coreutica di cui alla legge 21 dicembre 1999, n. 508, relativamente agli insegnamenti cui danno accesso i relativi diplomi accademici» (la logica sottesa alla conseguenza per cui «per effetto del succitato decreto legge devono essere soppressi i corsi di specializzazione per l’insegnamento secondario nel settore artistico e musicale istituiti presso le università, non essendo legittimato un doppio canale formativo», appare insomma essere una progressione del tipo ‘esiste A → istituiamo B → in forza dell’esistenza di B sopprimiamo A’: la qual progressione, direi, è tuttavia un sillogismo totalmente deficiente dell’indispensabile ergo, discendendo con palese evidenza da un’argomentazione politicamente del tutto legittima, ove dichiarata per tale e ove lasci trasparire la piena assunzione delle relative responsabilità, e non certo da deduzioni quasi logico-matematiche quali quelle che la prosa ministeriale sembrerebbe di fatto implicare);
(4) a margine del decreto del 14 luglio, infine, non si può non rilevare (su rimostranza di molte parti in causa) come la stessa legge 143/2004, ai fini dell’accesso al corso speciale di abilitazione a cui s’è ormai più volte accennato, discrimini i cittadini a un doppio livello: dapprima distinguendo, per il dispositivo combinato degli artt. 1 e 2,8 tra insegnanti di Musica e insegnanti di tutte le altre discipline (oltre ai 360 giorni di servizio, a questi ultimi è richiesto il possesso del titolo di specializzazione per il sostegno agli alunni disabili, mentre ai docenti di Musica, in aggiunta al servizio, non si richiede altro che il diploma di Conservatorio, ossia del solo titolo comunque obbligatorio per l’accesso alla classe di concorso); in secondo luogo, marcando un’incomprensibile differenza tra diplomati di Conservatorio e laureati in Discipline musicali (poiché unico titolo d’accesso alle Scuole di Didattica della musica è il diploma di Conservatorio, in forza dell’attuazione della legge 143/2004 prevista dal decreto del 14 luglio, i laureati in Discipline musicali non hanno accesso né al percorso straordinario, riservato ai diplomati, né al percorso ordinario di abilitazione — abolito di fatto dal decreto — anche ove abbiano svolto i richiesti 360 giorni di lezione: una situazione lesiva non solo di diritti acquisiti, ma anche — si ha ragione di ritenere — di qualche fondamentale diritto costituzionale).
L’assemblea generale della CRUI, in una mozione apposita approvata il 22 luglio 2004, ha quindi efficacemente riassunto ed espresso il pensiero di molti allorché ha stigmatizzato in maniera decisa sia l’inopportunità dei tempi d’emanazione sia, soprattutto, i contenuti del decreto in questione, rimarcando come, «ancora una volta, una decisione destinata ad avere un enorme peso sull’educazione e sulla cultura artistica e musicale del Paese sia stata assunta in totale noncuranza del ruolo svolto dall’Università italiana in questi ambiti, e a seguito non di un serio dibattito al riguardo, ma per estensione di un caso esclusivamente destinato a sanare situazioni pregresse»: una presa di posizione il cui insieme di motivazioni (esposto a monte dell’asserto appena citato)9 non deve aver evidentemente lasciato indifferente chi di dovere, se — dopo un riflessivo mese d’agosto — il Ministro, con decreto datato 15 settembre 2004, ha nuovamente autorizzato lo svolgimento delle prove d’ammissione ai corsi di specializzazione degli indirizzi Musica e Spettacolo (e Arte e Disegno), soddisfacendo così «le legittime aspettative degli aspiranti alla frequenza dei predetti corsi».
Mentre ne (ri)assicurava il regolare avvio, col medesimo decreto il Ministro dettava però anche un’inedita modalità di svolgimento del VI ciclo degli indirizzi Musica e Spettacolo, statuendo che «i predetti corsi sono svolti in collaborazione tra le università e i conservatori di musica, al fine di assicurare l’apporto delle specifiche competenze».
La precisazione è importante, massimamente in quanto essa non si presenta soltanto come soluzione-tampone ad auto-tutela d’una situazione d’emergenza (peraltro posta in essere dal soggetto stesso che ha dovuto porvi rimedio, ossia il MIUR), ma prefigura anche possibili scenari per l’immediato e per il remoto futuro.
Decretando la necessità della collaborazione tra Università e Conservatorii, infatti, appare chiaro che il MIUR esclude non solo l’eventualità che nel corpo dell’intervento ho numerato (1) — la prosecuzione delle condizioni attuali di abilitazione, vale a dire il mantenimento del doppio canale in un regime di ‘libero mercato’ e ‘libera concorrenza’ —, ma implicitamente anche l’eventualità (3) — ‘il compimento del protezionismo’, ossia l’affidamento totale ed esclusivo della formazione degli insegnanti di musica delle scuole di ogni ordine e grado agli Istituti AFAM — e impone di fatto, per l’oggi e per il domani, la collaborazione tra Università e AFAM. Una convenienza di cui il testo ministeriale fornisce una prima, embrionale causale normativa: «al fine di assicurare l’apporto delle specifiche competenze».
E se in tali specifiche competenze vanno sicuramente compresi gli apporti della docenza AFAM — la cui necessità e insostituibilità peraltro l’Università non ha mai messo in discussione, stipulando ben prima del 15 settembre 2004 convenzioni con istituzioni musicali o affidando contratti di insegnamento di determinate discipline precisamente a docenti di (ruolo nel) Conservatorio —, credo altrettanto specifiche — e quindi altrettanto necessarie e insostituibili — debbano ritenersi, nel sistema delle lauree specialistiche “abilitanti” che si va impiantando ad attuazione dell’art. 5 della legge 53/2003, le competenze che alla formazione degli insegnanti possono apportare i docenti universitari — e soltanto i docenti universitari — afferenti ai settori scientifico-disciplinari L-ART/07 (Musicologia e Storia della musica) e L-ART/08 (Etnomusicologia). E ciò che vale per la formazione degli insegnanti di Educazione musicale, direi, vale in prospettiva per la formazione degli insegnanti di Strumento musicale nelle scuole primarie e secondarie: che nessuno discute pertenga in primo luogo agli AFAM organizzare e gestire, ma che è logico ritenere abbisogni anch’essa di eguali e speculari «specifiche» competenze.
Né l’Università né l’AFAM, insomma — leggo nella prescrizione del Ministro, non solo (m’auguro) in forza d’un ottimistico wishful thinking —, possono arrogarsi il diritto o la pretesa di rappresentare, personificare ed esaurire tutta la musica: né verso il mondo della cultura, né verso il più vasto pubblico degli “amatori”, né (specialmente) verso le generazioni future. L’uno e l’altro ordine, in piena eguaglianza e parità, hanno (finalmente) da trovare il punto di quiete in cui il salutare unicuique suum sia costruttivo, e non distruttivo dell’insieme ‘musica’.
Ché, in caso contrario, a rimetterci non saranno né i docenti universitari, né i docenti di Conservatorio, ma tutti coloro che, a qualsiasi titolo, si volgono alla musica, e in ultima analisi la musica stessa — ossia precisamente ciò che ciascuno di noi, indistintamente, si prefigge di tutelare in tutte le rifrazioni del suo spettro esecutivo, produttivo, intellettuale e pedagogico.
1) F. Della Seta, Il sapere e il saper fare, in Alta formazione artistica e musicale e Università. Problemi e prospettive, Atti della giornata di studio (Roma, 2 luglio 2003), a cura di R. Morese, [Roma], MIUR, 2003, pp. 61-65: 61.
2) Corsivo mio.
3) A. Collisani, Formazione professionale e fine pedagogico, in Alta formazione artistica e musicale e Università cit. qui alla nota 1, pp. 138-143: 140.
4) Ibid., p. 142.
5) Così espressamente, p. es., R. Giuliani, Conservatori riformati: competenze specifiche e collaborazioni con le università, in Alta formazione artistica e musicale e Università cit. qui alla nota 1, pp. 51-59: 59; ma è la nota linea di pensiero che da tempo si riconosce nelle posizioni dell’ex-direttore del Conservatorio di Milano, Guido Salvetti.
6) Il comma in questione, nella sua forma originaria, recitava: «I diplomi conseguiti al termine di corsi di didattica, compresi quelli rilasciati prima della data di entrata in vigore della presente legge, danno titolo di accesso alle scuole di specializzazione di cui all’articolo 4, comma 2, della legge 19 novembre 1990, n. 341. Tali diplomi, ove rilasciati prima dell’attivazione delle predette scuole, sono considerati validi per l’accesso all’insegnamento, purché il titolare sia in possesso del diploma di scuola media superiore e del diploma di conservatorio o di accademia».
7) Traggo tutti i virgolettati dalla presentazione del senatore Franco Asciutti, relatore della (conversione in) legge al Senato della Repubblica (XIV Legislatura, Atto Senato n. 1742, Testo DDL, Presentazione, ad art. 6).
8) «1. Nell’anno accademico 2004-2005, e comunque non oltre la data di entrata in vigore del decreto legislativo attuativo dell’articolo 5 della legge 28 marzo 2003, n. 53, le università e le istituzioni di alta formazione artistica e musicale istituiscono, nell’ambito delle proprie strutture didattiche, corsi speciali di durata annuale, riservati:
(a) agli insegnanti di scuola secondaria in possesso della specializzazione per il sostegno agli alunni disabili … che siano privi di abilitazione all’insegnamento nelle scuole di istruzione secondaria, ma in possesso di un diploma di laurea o del diploma ISEF o di accademia di belle arti o di istituto superiore per le industrie artistiche, idoneo per l’accesso ad una delle classi di concorso …, e che abbiano prestato servizio su posti di sostegno per almeno trecentosessanta giorni dal 1° settembre 1999 alla data di entrata in vigore del presente decreto; …
2. Gli insegnanti in possesso dei diplomi rilasciati dai Conservatori di musica o istituti musicali pareggiati, che siano privi di abilitazione all’insegnamento e che abbiano prestato almeno trecentosessanta giorni di servizio complessivi in una delle classi di concorso 31/A o 32/A dal 1° settembre 1999 alla data di entrata in vigore del presente decreto, sono ammessi, per l’anno accademico 2004-2005, ad un corso speciale di durata annuale istituito nell’ambito delle scuole di didattica della musica presso i conservatori, secondo modalità definite con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca …».
9) «L’Assemblea generale della CRUI, preso atto della pubblicazione del d.m. del 14 luglio 2004 riguardante le “Scuole di Specializzazione per l’insegnamento secondario” (SSIS), che modifica in itinere quanto stabilito nel d.m. del 18 maggio 2004 relativo alla attivazione, per l’a.a. 2005-06, dei corsi delle SSIS, manifesta le più vive preoccupazioni per le implicazioni culturali e formative, nonché per il danno immediato arrecato all’utenza derivanti dall’entrata in vigore del provvedimento citato, a seguito del quale si attribuisce alle Accademie di Belle Arti ed ai Conservatori l’intera responsabilità della formazione degli insegnanti delle Scuole secondarie nei settori artistico e musicale.
L’Assemblea rileva l’innegabile differenza di approccio didattico, scientifico e culturale tra le Accademie ed i Conservatori, più attenti al saper fare che ai saperi teorici, e le Università, la cui attenzione è prevalentemente focalizzata sul sapere teorico e sulla sua costante elaborazione critica, e ribadisce l’interesse a che si sviluppi una collaborazione paritetica, che lasci ad ognuna delle Istituzioni citate la responsabilità della gestione delle parti di rispettiva competenza, distinguendo l’insegnamento di base, rivolto a tutti, da quello professionalizzante. Al contrario, separare la formazione degli insegnanti dei settori citati dal contesto della elaborazione scientifica e dal dibattito culturale interdisciplinare che costituisce lo statuto fondante delle Università arrecherà un danno grave ed irreparabile non solo a quanti frequenteranno i corsi di specializzazione oggi, e domani i corsi di laurea specialistica, ma soprattutto al Paese, perché l’assenza dei contributi della ricerca storico-critica universitaria si rifletterà sulla limitatezza dei contenuti che verranno riversati nelle scuole da parte degli stessi insegnanti. L’Assemblea ritiene che l’adozione del provvedimento legislativo citato rappresenti un grave, forse insormontabile ostacolo al processo di collaborazione tra Accademie, Conservatori ed Università che sta muovendo i primi passi, e che opportunamente guidato avrebbe potuto portare all’auspicata convergenza delle diverse competenze».