Claudio Toscani
1. Il melodramma, per chi oggi insegna alle generazioni che frequentano la scuola, può costituire uno strumento formativo privilegiato grazie, innanzitutto, alla sua multimedialità, che prevede la cooperazione di molti linguaggi concorrenti. I giusti richiami di Pagannone, che sottolinea la natura pluridimensionale dell’opera, e di Chiesa, che evidenzia il progressivo allontanamento delle più giovani generazioni dalle logiche di tipo lineare, conducono per via naturale a un punto di forza dell’opera in musica, che grazie al suo assetto costitutivo è affine alle forme più evolute della comunicazione contemporanea, dal cinema alla pubblicità al videoclip al sito Internet. Questa affinità può costituire, per il docente, un aiuto prezioso nel momento in cui viene introdotto in sede didattica un prodotto potenzialmente “ostico” – di solito al melodramma gli studenti sono, per proprio conto, scarsamente interessati – ma basato su congegni comunicativi familiari, nei quali tra l’altro trovano ampio spazio quei meccanismi visivi che nelle forme della comunicazione contemporanea sono assolutamente predominanti.
2. È ancora la pluridimensionalità del melodramma ad offrire un utilissimo spunto didattico nel momento in cui si voglia procedere a indagarne i meccanismi comunicativi. La pluralità dei linguaggi, e il fatto che essi non siano obbligati a coincidere semanticamente, permette di focalizzare l’attenzione sul funzionamento tecnico di ciascuno, magari separandolo artificialmente dagli altri. Se ci richiamiamo ai tre “codici” postulati da Pagannone (verbale, musicale, scenico-gestuale), possiamo sostenere che il dramma nasce dalla concorrenza, ovvero dalla cooperazione fra tre linguaggi. Ma il rapporto che gli allievi hanno con questi linguaggi è, in partenza, squilibrato. La comprensione del linguaggio verbale e di quello visivo è alla portata di ogni discente senza bisogno di un’intermediazione particolare, mentre quello musicale richiede invece un apprendistato, un insieme di conoscenze tecniche, storiche, stilistiche, culturali per essere correttamente compreso. Se tutti capiscono che cacciarsi le mani nei capelli è un gesto di disperazione, se tutti afferrano il significato delle parole “Ahimè, che fia!” (al massimo occorrerà spiegare agli studenti che i vanni sono le ali, il brando la spada e i sacri bronzi le campane…), non tutti comprendono senza spiegazioni che lo stato emotivo evidenziato da questo gesto e da queste parole può essere espresso, in musica, da un’aria di coloratura, da un timbro, da un’inflessione melodica determinata o da un colore armonico particolare. Né che gli stessi procedimenti si prestano a connotare stati affettivi dissimili (la coloratura, ad esempio, può corrispondere anche all’ira o alla follia) o addirittura contrari (la gioia, la superbia, la sicurezza di sé).
3. La concorrenza di più linguaggi, a questo punto, può essere una chiave per entrare nel funzionamento e nelle implicazioni semantiche del linguaggio musicale melodrammatico, ma anche del linguaggio della musica tout court. Rispetto alla musica “pura”, il melodramma facilita molto il compito al docente: non foss’altro per la presenza di un intreccio, di una storia rappresentata in tempo reale, evidenziata anche dall’azione scenica e dal testo verbale, che costituiscono il veicolo più immediato per la comprensione dei significati. Tra le osservazioni più intriganti, allora, emergeranno quelle che riguardano l’interazione tra i linguaggi: l’allievo sufficientemente acculturato riconoscerà che la musica può rafforzare ma anche contraddire ciò che emerge dal libretto o dai movimenti scenici, o magari mettere in luce aspetti nascosti della vicenda e dei personaggi, effettuando dunque uno scavo psicologico. Ciò equivale, a mio parere, a cogliere la specificità “profonda” del teatro musicale, che proprio alla presenza della musica è legata: la quale è sì un linguaggio concorrente con gli altri, ma rispetto a quelli nient’affatto subordinato.
4. Perché ciò sia possibile è necessario un processo di acculturazione: occorre lavorare, cioè, sulla musica, imparando a riconoscerne le valenze semantiche e il condizionamento cui la storia le sottopone. Come giustamente sottolinea Chiesa, occorre «lavorare sul potenziale simbolico-espressivo del fatto musicale e su continui rimandi a situazione scenica, gesto e parola» per essere certi di cogliere le corrette implicazioni del codice musicale. In questo senso, il melodramma costituisce – ancora una volta – un terreno di lavoro privilegiato: è ben noto, infatti, che il linguaggio operistico soggiace a un altissimo grado di convenzione e di stereotipia. Gli stilemi tecnico-espressivi, le formule melodiche, ritmiche e armoniche e persino le strutture morfologiche tendono a configurarsi come un “codice”, come un linguaggio retorico altamente formalizzato e largamente indipendente dalla storia. Tra gli altri, gli storici studi di Frits Noske, dei semiologi della musica e più recentemente di Marco Beghelli hanno svelato molto circa il funzionamento e i significati del codice melodrammatico; questi strumenti possono fornire una guida al docente e soprattutto indirizzarlo a un avvicinamento differenziato, commisurato all’età e al corso di studi dei suoi studenti. Spesso è solo la mancanza degli strumenti adatti a comprenderne il linguaggio e ad accettarne le convenzioni ciò che ostacola l’approccio al melodramma.
5. Un richiamo, da ultimo, al ‘cosa’ utilizzare, ai materiali su cui lavorare in sede didattica. Indipendentemente dalla quantità e dall’ampiezza delle proposte, indipendentemente dal fatto che si scelga una prospettiva storica o meno, credo sia essenziale commisurare le scelte alla maturità emotiva dei destinatari. Per gli studenti non è difficile accettare le numerose convenzioni su cui si basa lo spettacolo melodrammatico, che pur non sono cosa da poco: si pensi allo scoglio di vedere in scena attori che (assurdamente!) cantano invece di recitare, al linguaggio aulico e un po’ criptico dei libretti, all’inverosimiglianza delle vicende drammatiche, allo scorrimento antinaturalistico del tempo. Ma ciò che può ingenerare una reazione di rigetto, è quanto gli allievi non sono affettivamente pronti ad accettare, ciò che non innesca quel processo di empatia che è uno dei meccanismi essenziali della fruizione melodrammatica. Potremmo così avere la sorpresa (a me è accaduto) di constatare che Rigoletto o La bohème vengono percepiti con più fatica, e appaiono meno coinvolgenti e meno moderni, di un’apparente anticaglia come l’Adriano in Siria. Commisurare attentamente le scelte alla fascia d’età e alla maturità emozionale degli allievi, oltre che alla loro preparazione culturale, mi sembra una necessità impellente, primaria rispetto all’individuazione di un canone: esigenza, quest’ultima, che potrà beninteso essere riservata a una fascia superiore degli studi, quando gli studenti avranno una maggiore capacità di contestualizzazione storica.
Nota bibliografica
Sul codice referenziale del melodramma, costituito da segni drammatico-musicali, cioè da unità (semanticamente interpretabili) che sottolineano, chiarificano, annullano, contraddicono o sostituiscono un elemento del libretto, e costituiscono un formulario corrispondente a un sistema di attese rigido da parte dello spettatore (il quale ne intuisce inconsciamente il significato grazie a pratiche extra-teatrali di comune competenza), si vedano:
– Frits Noske, The Signifier and the Signified: Studies in the Operas of Mozart and Verdi, Oxford, Oxford University Press, 1977 (trad. it. Dentro l’opera. Struttura e figura nei drammi musicali di Mozart e Verdi, Venezia, Marsilio, 1993);
– Frits Noske, Semiotic Devices in Musical Drama, in A Semiotic Landscape, Atti del I° Congresso dell’Associazione Internazionale di Studi Semiotici (Milano 1974), The Hague, Mouton, 1979, pp. 1019-1024;
– Cristina Cano, Semiologia e pedagogia della musica: prospettive nel dibattito pedagogico italiano, «Rivista italiana di musicologia», XXV, 1990, pp. 353-387;
– Cristina Cano, La musica nel cinema, Roma, Gremese, 2002;
– Marco Beghelli, La retorica del rituale nel melodramma ottocentesco, Parma, Istituto nazionale di Studi verdiani, 2003.