«Una volta – scrive Michelangelo Antonioni – fecero a Pirandello delle domande sui suoi personaggi, sulle scene, sulle sue commedie, e lui rispose: “E io che ne so? Sono l’autore”». Può sembrare una battuta, e certamente lo è, eppure rivela la piena consapevolezza che il significato dell’opera va ben oltre il senso delle parole e talvolta sfugge allo stesso autore. Sullo stesso registro le testimonianze dei maggiori protagonisti delle arti del ’900 – Picasso, Calvino, Stravinsky, Mirò, Matisse, Klee, Fellini, Hemingway e molti altri – i quali nei loro scritti non fanno che ripetere un concetto elementare ben noto a chi dipinge, scrive o compone: l’arte si fa facendola, il significato viene dopo e non si può tradurre in parole. «Dal momento in cui comincio a mettere nero su bianco – scrive Calvino – è la parola scritta che conta: prima come ricerca d’un equivalente dell’immagine visiva, poi come sviluppo coerente dell’impostazione stilistica iniziale, e a poco a poco resta padrona del campo. Sarà la scrittura a guidare il racconto nella direzione in cui l’espressione verbale scorre più felicemente, e all’immaginazione visuale non resta che tenerle dietro».
L’opera d’arte – una composizione, un romanzo, un dipinto, una scultura, un film – è il risultato di un atto intellettuale consapevole – dunque di un’idea – dove tuttavia entra prepotentemente in gioco l’azione concreta, materiale, del fare artistico, che inevitabilmente pervade e condiziona l’opera fin dal momento in cui essa inizia a prendere forma sul pentagramma, sulle righe, sulla tela, sulla pellicola. L’immagine iniziale può mantenere inalterata la sua forza oppure trasformarsi nel corso del lavoro, ma il più delle volte serve soprattutto da stimolo, perché a poco a poco la materia resta padrona del campo.
A scuola ci insegnano a cercare nell’arte un significato fondamentale senza cui l’opera non ha motivo d’essere, è addirittura – scrive Milan Kundera – immorale, come se la materia dell’arte fosse solo il supporto di un’idea che miracolosamente si rivela all’artista perché trovi poi il modo di comunicarla ai comuni mortali. Forse noi letterati, come Degas definiva con spregio critici e studiosi, dovremmo più spesso dare ascolto agli artisti, per lo meno ai più lucidi tra loro: «io lavoro senza teorie – scrive Matisse – ho soltanto coscienza delle forze che adopero: vado avanti, spinto da un’idea che conosco veramente solo man mano che si sviluppa, mentre il quadro procede».
Idea opera significato. Il problema è dove cade l’accento. La critica e la storiografia han sempre dato più importanza ai due estremi, ma l’idea offre solo un punto d’inizio (è «un sospetto, un’ipotesi di racconto, ombre di idee, sentimenti sfumati», scrive magnificamente Fellini) perché a poco a poco la materia prende il sopravvento e offre il suo prezioso, indispensabile alimento all’immaginazione. È solo mentre si scrive o dipinge che la fantasia dona i suoi frutti, in astratto la materia è ancora troppo lontana per suggerire combinazioni, accostamenti, soluzioni, scoperte. Quanto al significato, come ho suggerito nel libro Sulla genesi della creazione artistica. Una prospettiva musicale (LIM, 2019), si dovrebbe sempre guardare alla musica, che non significa nulla e moltissimo: la prospettiva musicale ci aiuta a comprendere che qualsivoglia riformulazione in parole di un’opera di qualità non coglie che la millesima parte di quanto essa ci trasmette. «Parlandone – scrive Fellini – si scivola in una serie di ipotesi imprigionanti, vischiose, che [la] fissano in immagini, strutture, caratteristiche inevitabilmente riduttive».
Enrico Careri
Professore ordinario di Musicologia e Storia della musica
Dipartimento di Studi umanistici – Università degli Studi di Napoli “Federico II”