La pandemia ha introdotto una dolorosa distanza fra gli individui, ma parallelamente ad essa ha innescato anche un insidioso processo di allontanamento fra gli individui e le testimonianze materiali del passato.
Nel campo delle discipline umanistiche ciò ha acuito la crisi in cui già da anni versa lo studio dei testi e dei supporti fisici che li tramandano. L’intero settore della ricerca storica e dello studio filologico dei testi letterari e musicali sta infatti oggi vivendo una fase di repentino mutamento e adattamento alle nuove risorse offerte e alle inedite condizioni imposte dal digitale e appare molto cambiata rispetto a quando, fino a pochi decenni fa, gli studiosi interessati alla comparazione e collazione fra testimoni conservati in biblioteche diverse dovevano ricorrere a microfilm e riproduzioni fotografiche. Nel campo dell’indagine musicologica, un’immagine vivida di questo “mondo scomparso” è ancora osservabile nella Biblioteca “Oscar Mischiati” di Bologna, dove è depositato il lascito documentario e bibliografico dell’insigne erudito (1936-2004), nonché l’intera sua collezione di microfilm. Insieme alle preziose pellicole la biblioteca conserva infatti una raccolta di interessanti cimeli connessi al processo di richiesta, ricezione e studio dei microfilm, tra cui incartamenti ancora intatti, minute di richieste, fogli di appunti, buste (quasi tutti glossati e ordinati secondo criteri mirati) e altre testimonianze relative alle sue indagini.
Scaturisce spontaneamente una domanda: che cosa direbbe oggi Mischiati delle vaste biblioteche digitali disponibili online, in cui si possono liberamente consultare migliaia di fonti letterarie e musicali, riprodotte in immagini a colori di milioni di pixel che, ingrandite, evidenziano dettagli invisibili ad occhio nudo?
Ne sarebbe di certo entusiasta e ne approverebbe i vantaggi sul piano della preservazione del patrimonio musicale. Apprezzerebbe altresì la possibilità di consultare e confrontare ingenti quantitativi di fonti musicali e di allestire grandi banche-dati digitali (si pensi al progetto Corago dell’Università di Bologna) e considererebbe l’enorme potenziale offerto dall’interazione fra la realtà digitale e le nuove tecnologie, che permette oggi l’utilizzo dell’analisi chimica e spettroscopica, nonché di software di elaborazione delle immagini capaci di illuminare stratificazioni di porzioni testuali, biffature e dettagli minuti. Pur considerando tutto ciò con entusiastica ammirazione, lo studioso non si riterrebbe però del tutto soddisfatto: chi si accontenta della riproduzione digitale rischia infatti di perdere irrimediabilmente una parte considerevole delle informazioni racchiuse nel supporto materiale e si preclude la possibilità di comprendere più a fondo i testi e i contesti di produzione e fruizione.
È però necessario puntualizzare che il sempre più diffuso disinteresse verso il confronto diretto con le fonti è in parte imputabile agli stessi progetti di digitalizzazione. Questi rendono sì disponibili online ad accesso libero e gratuito migliaia di fonti musicali, ma possono al tempo stesso indurre il fruitore a un approccio superficiale. Solo alcune istituzioni internazionali, come la Sächsische Landes- und Universitätsbibliothek di Dresda, si stanno infatti impegnando nel creare biblioteche digitali esaurienti, complete di informazioni connesse agli aspetti codicologici dei supporti materiali (quali riproduzioni delle coperte, delle carte di guardia e delle filigrane), nonché munite di un prezioso apparato metatestuale, comprendente riferimenti affidabili – ossia elaborati e controllati da esperti della disciplina – circa la storia del volume, la fascicolazione, i copisti (nel caso dei manoscritti) o i dati editoriali (nel caso delle stampe).
La maggior parte delle biblioteche digitali disponibili – anche molto recenti – non si appoggia invece su progetti di Digital Humanities davvero ben impostati, aggiornati e funzionali, ma si limitano alla mera riproduzione (a volte non completa) e alla fornitura di informazioni di corredo parziali, poco aggiornate se non addirittura scorrette, che fuorviano lo stesso approccio critico e interpretativo dello studioso.
Siamo in tempo per un’inversione di rotta o quantomeno per una rettifica del percorso intrapreso? Probabilmente sì, ma se non vogliamo che i musicologi di domani dimentichino l’importanza del contatto diretto con la consistenza materiale delle fonti occorre che nelle scuole e nelle università si “educhi alla materialità”; gli insegnanti ricordino agli studenti di oggi (possibili studiosi di domani) quanto importi, nell’ambito delle discipline umanistiche, coltivare un approccio alle nuove tecnologie e al digitale che non trascuri l’imprescindibile nesso fra lo studio del passato e le testimonianze che esso ci ha consegnato. Nella scuola secondaria e all’università ricade sui docenti il compito di favorire un contatto sempre più saldo fra i giovani e le fonti materiali. Solo attraverso una visita in biblioteca, in archivio o al museo gli studenti potranno annusare il profumo della carta antica, osservare dappresso le testimonianze del passato e maturare un approccio critico alla realtà storica.
Si tratta certo di una sfida impegnativa, ma come musicologi del terzo millennio non possiamo esimerci dall’affrontarla.
Federico Lanzellotti
Dottorando in musicologia
Università di Bologna – Universidad Complutense de Madrid