Chi insegna Storia dell’arte dev’essere un buon allenatore. Un coach (derogo qui al mio noto odio per gli anglismi gratuiti) dell’occhio. Deve far maturare il senso critico addestrando a vedere: vedere, e questo è il punto, anche quello che talvolta non si vede…
Risulta istruttivo, è noto, l’esame comparativo di opere artistiche, svolto affiancando immagini iconograficamente congrue ma lontane nel tempo e nel concetto, come suggerito dalla prassi tardottocentesca, positivista e formalista: consente di esercitare lo sguardo, di porre a confronto coincidenze o divergenze.
Le cose si complicano nell’arte del Novecento, ove convivono modalità tradizionali e situazioni non figurative, “esplosive”, dal Concettuale alla performance, via via verso un intreccio irrisolvibile di arte e vita.
Si possono dunque trovare ragioni comuni tra situazioni allotrie, addirittura in termini estetici, prima che stilistici? Ad esempio, tra la pittura (che più pittura non si potrebbe) di Giorgio de Chirico e talune coeve esperienze extrapittoriche dadaiste, prodrome, a distanza di tempo, del Situazionismo francese degli anni Cinquanta-Sessanta?
La poetica dechirichiana, solo in apparenza reazionaria, è eterotopica, innervata dalla fascinazione del viaggio e dell’altrove, intavolata su architetture sfuggenti ed enigmatiche, pervasa dalla conturbante apparizione di presenze numinose. Dense ed ermetiche, ma leggere e festosamente cromatiche, sono le sue scoscese scatole prospettiche, popolate di oggetti eterocliti in apparenza insensati, allusioni mitologiche ed inquietanti manichini.
Al contrario, diagrammatiche e ben poco allettanti, le mappe psicogeografiche del Situazionismo insistono sugli stati emozionali nel procedere a piedi in una scoperta urbana che predilige percorsi obliqui, rotte “altre”, sottratte ai flussi rituali dell’homo oeconomicus, con le celebri “derive”, ove la dimensione psichica dei siti, dà luogo ad una città nuova da ricostruire con l’immaginazione.
La ricerca di un denominatore comune porta sì all’idea di viaggio, ma un viaggio autotelico, ove partenza e arrivo si elidono reciprocamente, poiché Giorgio de Chirico è in perenne vagare tra le stanze del museo in un tempo circolare, per voler essere egli “originario” e non “ originale”; le sue tele metafisiche ripropongono ossessivamente treni e velieri in partenza ma al contempo l’impossibilità di raggiungerli in un cammino disseminato di ostacoli: muri, salite ripide, maquettes architettoniche dalle aperture impraticabili; e ancora i suoi paesaggi geografici e cartografici imprigionati in interni angusti, ove le normali relazioni topologiche si annullano o diventano palindrome. L’autobiografia parla della sofferenza del viaggio e dello spostamento, mentre le ricombinazioni del suo immaginario oggettuale rivelano un peregrinare in scenari surreali, ove ogni logica è sovvertita.
Questa erranza ipnagogica è il contraltare pittorico e solitario delle quasi contemporanee passeggiate dadaiste organizzate da Tristan Tzara e poi da Andrè Breton nella Parigi dei primi anni Venti, lungo tragitti estranei alla flânerie borghese. Ma un riferimento più centrato è appunto la loro riedizione nelle “derive” situazioniste degli anni Cinquanta animate da Guy Debord e Gilles Ivain ove, cassato il nihilismo dadaista, si cerca una nuova dimensione emotiva e fantasmatica della città e dell’architettura, proprio come quelle maquettes dechirichiane. Deriva come passeggiata avventurosa, non senza pericoli, lungo i meandri cittadini più negletti, in un fuori-rotta pieno di incontri imprevisti, situazioni illogiche, un girovagare ludico-costruttivo che tramite il detournement, una ridefinizione di senso dello scenario, rivede cose usuali con occhi nuovi, proprio nei termini della Metafisica dechirichiana.
Forse in tal modo l’eterno ritornare immaginifico di de Chirico e il girovagare ludico situazionista sembrano comporsi in una estrema, straniante chimera.
Gian Luca Tusini
Professore associato
Dipartimento di Beni Culturali · Università di Bologna