Anna Menichetti
Plinio il Vecchio poneva la memoria nell’orecchio: tutto ciò che ci circonda, suono o rumore che sia, viene continuamente registrato ed engrammato dal nostro cervello. Il sostegno visivo cerebrale supporta maggiormente la registrazione acustica ma, mentre un’immagine senza suono è ‘muta’, un suono senza immagine ‘parla’. Le due cose insieme costituiscono la perfezione. È la storia della radio e televisione, la loro forza. Questa oralità di ritorno, come l’ha definita Walter Ong alcuni decenni fa, ha consentito ai media di riposizionarsi a dovere entro un sistema comunicativo che contempla i meccanismi della mnemotecnica: se ogni cosa fruita entra nel processo della memoria – come esperienza acustica e visiva – allora vedere, leggere, ascoltare si riallacciano immediatamente al ‘sentire’ un evento, l’insieme dei sensi: il tutto diviene in-formazione.
Le generazioni dello scorso secolo si sono nutrite in modo edace di espressione radiofonica e televisiva, l’operatività della Rai è stata considerata a lungo fra le migliori del mondo, consentendo una conoscenza espansiva e in alcuni casi capillare della materia musicale: nel corso degli anni si è venuto a creare un pubblico di abili ascoltatori che proprio grazie alla frequentazione assidua dei mezzi di diffusione sonora ha dato vita a una folta moltitudine di fruitori ferrati e capaci di individuare sottili differenze di esecuzione, interpretazione, professionalità, competenza del fatto performativo. Grazie alla formazione e alla ritenzione mnesica confortata dai mezzi radiotelevisivi si è sviluppata una fascia di mezzo, una ‘borghesia’, un terzo strato di conoscitori della musica, formatisi soltanto e/o prevalentemente attraverso il meccanismo d’ascolto. Competenti di un universo legato alla trasmissione la cui portata epocale, che ancora oggi non si rileva in modo adeguatamente approfondito, ha incentivato nel tempo rubriche e programmi sempre più specialistici.
Un tale percorso formativo ha vissuto l’accumulo dell’ascolto, la memorizzazione consapevole e non, delle prassi esecutive che si basano sulla connessione e il confronto delle esecuzioni: è lo strato di cui si sono alimentate soprattutto la diffusione commerciale, l’industria discografica, e ora il web con streaming e podcast, eventi live e riproduzione in rete. Il grado di conoscenza raggiunto è elevato poiché negli anni si è addensata perizia di giudizio grazie a mezzi che sono entrati nelle case con estrema facilità, anche economica. L’accesso all’informazione è stato espansivo ed ecumenico, libero da divisioni sociali: i mezzi radiotelevisivi hanno saputo infrangere confini, difficoltà logistiche, economiche, geografiche che ostacolavano l’accesso facilitato alla musica (dal teatro, al concerto, al grande evento) che per mille ragioni era impedito alla più parte delle persone. Sono un esempio le dirette radiofoniche delle Prime operistiche, che hanno consentito di entrare nell’evento ma anche nell’apparato logistico delle rappresentazioni: interviste, commenti ma soprattutto, nei casi più felici e meno mondani, raccolta di suoni dietro le quinte, cambi di scena, conversazioni con maestranze del teatro, persino tempi d’esecuzione con ritardi o avvenimenti inattesi: chi scrive ha potuto verificare in prima persona, conducendo per circa venti anni dirette radiofoniche non solo scaligere, l’interesse e l’assembramento di informazioni che andavano a colpire un pubblico di varia formazione estremamente interessato non solo all’evento musicale ma al suo formarsi. Tutto ciò ha saputo rendere tangibile l’occasione ‘unica’, allargata poi dalla possibilità tecnologica dell’ascolto in differita a proprio agio.
Si è consentito di entrare nei luoghi a ingresso limitato per ‘sentire’ l’aria di palcoscenico, per citare l’Adriana Lecouvreur e, attraverso i meccanismi mnesici, costruire un gusto musicale: in particolare, uno stile d’ascolto nuovo, disinvolto, originale e fino a oggi non sufficientemente valutato per la sua portata antropologica e sociale.