Angelo Foletto
A poche settimane dalla scomparsa di Pietro Citati, straordinario divulgatore e critico che non ha mai anteposto la saggistica pura agli interventi sulla stampa ordinaria, un tentativo di risposta pilatesca è togliersi da ogni responsabilità diretta, sostituire l’aggettivo “letteraria” a “musicale”, e rifletterci su. Poi verificare, riportando gli aggettivi a posto, se è possibile fare, non dico un paragone, ma almeno una «correlazione di genere» tra il ruolo carismatico e intellettuale di Citati e la sua «incidenza» nel mondo dell’editoria dedicata alla letteratura e ciò che avviene oggi nel campo musicale. Dovendo, pregiudizievolmente, ammettere che, da alcuni anni oramai, il campo dei titolati a essere “i Citati” della divulgazione culturale musicale, cioè autori-studiosi dotati degli strumenti critico-divulgativi pertinenti, d’un modo di scrivere d’istinto allineato al lettore e di un’autorità (autorevolezza) professionale in grado di essere recepita e tutelata in modo adeguato dalle redazioni, s’è desertificato. Per capirci: Mario Bortolotto e Mario Messinis sono tra gli ultimi rimpianti; Quirino Principe è presente, ma sempre più di rado. Così, nello specifico giornalistico, la «cultura musicale» è scesa di grado e peso specifico professionale. O, a dirla meglio, il modo di proporla: ché la «cultura musicale» ha resistenti anticorpi. E anche di fronte alla noncuranza redazional-giornalistica con cui è spesso affidata – esempio recente: Corrado Augias ricordando Piero Angela su Repubblica sintetizza «la grande musica occidentale» come «materia circoscritta, possiamo dire, approssimando, che comincia con J. S. Bach e finisce nella prima metà del XX secolo» – trova sempre il modo di lasciare un segno forte utilizzando altri strumenti. Oggi spesso online. Lo dimostrano alcune riviste in fase di crescita di sostanza e seguito consapevole, ben collocate e diversificate (rispetto alle troppe bacheche dilettantesche o da bar sport dell’opera sul web) seppure non ancora abbastanza solide e conosciute da essere di riferimento e considerate attendibili anche dagli appassionati più esigenti e sospettosi verso tutto ciò che è nuovo(?). E il segno che lascia il giudizio critico sui quotidiani rimane forte anche quand’è sporadico e debilitato perché occasionale, sminuito dallo scarso spazio argomentativo, sofferente per collocazione grafica all’interno della pagina, poco fidelizzante (cioè quasi mai affidato agli stessi autori che si occupano di critica musicale) e solo saltuariamente nella forma ‘classica’ di recensione, contributo che quasi tutte le redazioni considerano una «non-notizia», alla Paolo Mieli. In altre parole, il racconto/messaggio critico, lungi dall’essere, giornalisticamente, un reperto giurassico che poco o nulla ha a che fare con la realtà, può ancora dire molte cose. Magari accettando di occuparsi non solo dell’esecuzione, ma sventagliando lo sguardo criticamente a 360° gradi: occupandosi del mondo musicale che vi sta dietro o di quello che corre avanti suscitato dalla cadenza ossessiva di notizie scaricate dal web, e di opinioni sui social che hanno bisogno di essere analizzate, valutate, rubricate per utilità, autenticità e qualità.
Quindi la “cultura musicale” ha ancora un peso in giornali e riviste non specialistiche? Beh, se la identifichiamo con i formati specifici d’un tempo, in primo luogo la recensione e l’elzeviro-mini saggio “alla Citati”, la risposta è scoraggiante. Perché se non è scomparsa del tutto, l’episodicità degli interventi e la sottrazione di autorialità di chi le firma, rendono di fatto difficile attribuire la qualifica di “cultura musicale” a certi articoli. Allo stesso tempo, se fatta con la passione e la competenza che ci vuole, è un bene prezioso proprio perché così giornalisticamente raro e osteggiato: può ancora fare pensare l’appassionato e l’interprete. E indurre riflessioni, tenendo vivo e non banale il dibattito sulla ‘politica’ culturale, anche a chi la musica la organizza, promuove, studia, insegna o ne commercia.