Un’intima riflessione sulla formazione dell’uomo: questo è il Glasperlenspiel (Il giuoco delle perle di vetro), romanzo che valse ad Hermann Hesse il premio Nobel nel 1946.
Motore del Bildungsroman, che Hans Mayer inscrive nel solco del romanzo pedagogico tedesco, è il fascino personale del protagonista, Josef Knecht, orfano iniziato alla musica fin da tenera età e presto ammesso nell’ordine intellettuale di Castalia, luogo utopistico situato in una fantomatica ‘Provincia pedagogica’ (così Hesse la definisce) nata sulle rovine del materialismo postmoderno, che mira a coltivare lo spirito grazie all’esercizio delle più svariate discipline: filologia, matematica, musica e quant’altro.
In seno a un ordine regolato da una rigida gerarchia poco incline ai contatti col mondo, Knecht impara a coniugare pratiche orientali e monachesimo benedettino secondo una prospettiva laica, estetico-intellettuale, mentre le abilità in àmbito diplomatico gli valgono la carica di ‘Magister Ludi’, Maestro del gioco delle perle di vetro, un’attività le cui regole non vengono mai spiegate, e ci stupirebbe il contrario dal momento che il gioco è riservato agli iniziati dell’ordine quale latore di un forte sentimento identitario-élitario. Esso consiste in una sofisticata creazione di nessi tra i più svariati elementi (per esempio: come stabilire una connessione tra un ricercare di Froberger e una casa cinese?), in un virtuosistico gioco di relazioni che riflette un equilibrio cosmico di tipo kepleriano.
A lungo andare l’indugio sulla dimensione speculativa muove però in Knecht la coscienza di appartenere a un microcosmo sterile, decadente:
“Da qualche tempo sono sul limite dove la mia fatica di Maestro del Giuoco delle perle diventa un eterno ripetere e vacuo esercizio, e io la compio senza gioia, senza entusiasmo, talvolta perfino senza fede. Era ora di smettere.”
Knecht recide così i legami con Castalia ed entra nel mondo per consacrarsi alla formazione del figlio di un vecchio compagno di studi: Tito, questo il nome del discepolo, sarà educato conciliando spirito castalico e mondano.
E con questo luminoso proposito il libro si chiude: di lì a poco Knecht annegherà nelle acque di un lago alpino dove si è immerso per seguire il giovanotto. L’epilogo, assai singolare, fa leva sul sentimento di mancanza conseguente alla perdita del maestro, sulla profonda metamorfosi causata dal distacco.
“E mentre, nonostante le obiezioni, [Tito] si sentiva colpevole della morte del maestro, lo prese con un sacro brivido il presentimento che quella colpa avrebbe trasformato lui stesso e la sua vita, e preteso da lui cose molto più grandi di quante fino allora egli avesse mai pretese da sé stesso.”
Leggiamo dunque nel Glasperlenspiel un’amplissima parabola che dispensa riflessioni filosofiche della più varia specie, riguardo i cicli della vita, le metamorfosi dello spirito, la ricerca vuoi scientifica vuoi interiore, il significato della Storia, il rapporto tra potere e libertà anche in relazione alla gestione dell’amicizia e dell’eros, perfino l’uso arbitrario del fascino personale nelle attività pedagogiche. In capo a tutto è l’amore per l’educazione dei giovani come sprone allo sviluppo dell’empatia, obiettivo primario – Hesse ce lo rammenta ad ogni passo – del delicato processo di filiazione intellettuale che presiede alla crescita di una società libera.
Sara Elisa Stangalino
Ricercatrice
Institut für Musikwissenschaft Weimar-Jena