Luisa Sclocchis
Se, in nome di un inarrestabile processo di modernizzazione, non ci resti che rassegnarci a considerarci ospiti della società liquida teorizzata da Zygmunt Bauman, è un angoscioso quesito dinanzi al quale molti di noi si trovano spesso inermi e attoniti. Già, i tempi sono cambiati, il livellamento culturale impera. L’inclusività ad ogni costo, l’omologazione, la legge dell’uno vale uno, sono divenute regola. Evidenziare differenze è ritenuto scomodo e, se non offensivo, almeno anacronistico. Procedendo quindi controcorrente potremmo essere tentati di domandarci cosa sia ancora ammesso che “faccia la differenza”? Proviamo ad avvalerci dell’ausilio di un serrato esercizio logico e analizzare la realtà attuale. Il tema muove da un’indagine, quella sull’incidenza della cultura musicale nella stampa quotidiana e periodica. In tempi di grande successo dei social e di gradimento sempre meno diffuso verso la stampa, occorrerebbe forse soffermarsi sul differente apporto degli uni e degli altri. In termini di potenzialità comunicativa, soprattutto. La funzione dei social di creare vicinanze e possibilità di contatto con persone distanti è assolutamente condivisibile e in qualche misura irrinunciabile. Ma ciò a cui oggi assistiamo è l’affermazione di una terra di nessuno in cui nessuna competenza specifica dà valore ad un intervento a discapito di un altro sullo stesso tema. Ed ecco che, tornando alla cultura musicale, la libertà di espressione – mai abbastanza “celebrata” conquista costituzionale – autorizza chiunque ad esprimere il proprio punto di vista e giudicare qualsiasi cosa. Esatto, qualsiasi cosa. Non importa se non si sia avuto modo di approfondire la materia, se esistano corsi di studio appositi perché questo avvenga, e competenze che lo certifichino. L’importante è esserci e far valere il proprio diritto, la propria libertà di parola. Le professioni sono in crisi, il riconoscimento del talento e del valore dei percorsi di studio pure. La critica, quindi? Beh, si esercita come tutti sanno sempre meno sulla stampa quotidiana. Tra le strategie di salvaguardia della ormai precaria salute della carta stampata, infatti, vi è quella di ridurre al minimo la presenza di temi non alla portata di tutti e di coloro che a ragione della propria formazione possano scriverne. Via quindi critici musicali, musicologi e specialisti, le distanze vanno drasticamente accorciate. E, insieme a loro, via anche il dovere in qualche misura “educativo” di cui, fino a qualche tempo fa, era investita anche la stampa. Utile strumento di approfondimento sui tanti temi di cui alcuni, evidentemente, fossero in grado di fornire letture improntate al principio della conoscenza. Oggi lo scrivere di musica è avvertito come un privilegio. E in quanto tale ingiusto e poco accettato. Anche nella cosiddetta classica pullulano i blogger, gli influencer, e coloro che a vario titolo sulle proprie pagine social ne disquisiscono. Così come in tanti organizzano interviste ed iniziative di vario genere legate al mondo della comunicazione prima riservato a professionisti del settore: giornalisti, musicologi, critici musicali o storici della musica. Forse talvolta colpevoli di non vestire in maniera convincente i panni di chi abbia l’esigenza di farsi capire e allargare la propria platea, ma pur sempre professionisti ed esperti. Visibilità, seguito misurato in “follower” e “like” sono le vere odierne cartine al tornasole del successo. Un successo effimero quanto privo di contenuto ma chissà, certamente, quanto ipocritamente, inclusivo e perché no, “iconico”.