Susanna Pasticci – Cassino

Il dettato legislativo, nel precisare che i corsi di dottorato di ricerca forniscono le competenze necessarie per esercitare «attività di ricerca di alta qualificazione», sembra dunque delineare con sufficiente chiarezza le finalità del percorso formativo. Non poche incertezze, e pesanti, gravano tuttavia sull’effettiva spendibilità del titolo di studio, in termini di concrete opportunità occupazionali. La questione è spinosa e complessa; si consideri che le incertezze non riguardano semplicemente il futuro professionale dei dottori di ricerca, ma proiettano più di un’ombra sull’assetto generale dell’istituto dottorale, sollevando anzi non pochi interrogativi sulla sua stessa ragion d’essere. Alcune riflessioni sull’«imperfetta fisiologia degli sbocchi dottorali» erano già enunciate nel precedente resoconto. apparso in questa rivista nel 1994 (1): a sei anni di distanza, il problema non ha perso il connotato dell’urgenza, ed è anzi sempre più attuale, proprio in relazione al progressivo incremento numerico dei cicli dottorali.

In linea di principio, sembrerebbe logico ipotizzare che una significativa percentuale di dottori, ossia di studiosi che possiedono le competenze dallo Stato reputate necessarie all’esercizio di “attività di ricerca di alta qualificazione”, debba poi essere chiamata a svolgere attività e a ricoprire incarichi coerenti con la vocazione del dottorato e con le aspettative di chi lo consegue. E non solo a beneficio di questi ultimi: se le possibilità occupazionali aperte al dottorato non sono coerenti con le aspirazioni di chi intraprende tale percorso formativo, sarà sempre più difficile mantenere un alto profilo culturale dell’istituto dottorale medesimo. Il conseguimento del titolo implica infatti un investimento di energie assai elevato non solo da parte dei dottorandi, ma anche da parte dei docenti impegnati nei corsi dottorali, e sollecita il riconoscimento di un prestigio del titolo che può affermarsi solo nel caso che esso dischiuda prospettive professionali interessanti. Nell’organizzare, gestire e finanziare i dottorati, l’università mette in campo un capitale di risorse di considerevole entità: sarebbe dunque poco conveniente, se non altro sotto il profilo economico, che l’università medesima, luogo deputato allo svolgimento di “attività di ricerca di alta qualificazione”, non conferisse al titolo dottorale un adeguato riconoscimento nell’avviamento e nell’arruolamento alla carriera accademica. Questo è particolarmente vero per gli studi musicologici, se si considera che nel nostro Paese il numero degli istituti di ricerca musicale – gli “enti pubblici o soggetti privati” indicati dalla legge 210/98 come possibile risorsa occupazionale alternativa rispetto all’università – risulta assai esiguo, e del tutto sproporzionato alla ricchezza delle tradizioni e dei beni musicali che si conservano in Italia.

Una problematica tanto complessa non si può ridurre ad una mera diatriba sul valore legale del titolo dottorale – un valore che nessuna normativa attualmente riconosce, neppure implicitamente –, ed investe orizzonti più ampi. A scanso di equivoci, occorre sottolineare che, nelle intenzioni del legislatore, il dottorato di ricerca non ha lo scopo di formare nuovi professori universitari, ma più genericamente di fornire un’adeguata preparazione a coloro che decidono di dedicarsi ad attività di ricerca. Il conseguimento del titolo non comporta dunque alcun automatismo nell’ambito della carriera accademica; del resto, una disposizione di legge che riservasse l’arruolamento universitario ai soli dottori di ricerca comporterebbe una forzatura, almeno allo stato attuale delle cose, e fintanto che l’accesso ai corsi dottorali sarà limitato a un così esiguo numero di giovani studiosi. Dal punto di vista giuridico, peraltro, la situazione italiana non presenta alcuna anomalia rispetto a quella degli Stati europei con i quali negli anni futuri, entro lo “spazio europeo dell’istruzione superiore”, l’Italia sarà sempre più spesso chiamata a confrontarsi (2): anche nel resto d’Europa, “il titolo conseguito al termine del corso di dottorato non comporta necessariamente diritti automatici per la carriera nell’università, negli ambienti di ricerca o nell’industria” (3).

La necessità di valutare la questione in un quadro più ampio rispetto a quello del nostro Paese non è un’esigenza formale, dettata da ragioni di esterofilia: nel 1998, infatti, l’Italia ha aderito alla Dichiarazione congiunta sull’armonizzazione dei sistemi di istruzione superiore europei, con cui i ministri di Francia, Germania, Regno Unito ed Italia si impegnano “nello sforzo di creare uno spazio europeo dell’istruzione superiore, in cui le identità nazionali e gli interessi comuni possano interagire e rafforzarsi l’un l’altro a beneficio dell’Europa, dei suoi studenti e più generalmente dei suoi cittadini” (4). Se le recenti normative in materia di autonomia didattica e innovazione dei corsi di studio introducono sostanziali modifiche nell’assetto del mondo universitario italiano – proprio nella prospettiva di una piena “armonizzazione” coi sistemi europei d’istruzione superiore (5) –, è però vero d’altro canto che nell’ambito specifico dei dottorati di ricerca la situazione italiana continua a presentare peculiarità notevoli, se non addirittura vere e proprie “anomalie” rispetto ai partner europei.

L’Italia è infatti l’unico Paese in cui la selezione degli aspiranti al dottorato viene effettuata mediante un pubblico concorso d’ammissione articolato in varie prove d’esame, là dove in qualsiasi altro Stato europeo tale accesso, pur senza essere del tutto libero e indiscriminato, è subordinato a un semplice colloquio o a una valutazione dei titoli, del curriculum universitario e di lettere di referenza, anche nel caso in cui i candidati aspirino, oltre che all’ammissione al corso, al godimento di borse di studio (erogate in quantità abbastanza significativa soprattutto nel Regno Unito e in Olanda) (6). Ma la vera, profonda anomalia della situazione italiana risiede soprattutto nell’esiguo numero di posti annualmente messi a concorso: nel caso specifico dei dottorati in discipline musicali attivati presso le università di Bologna, Pavia-Cremona, Roma “La Sapienza”, Trento e Padova, la quantità complessiva di tali posti ammonta attualmente a venti, anche se negli anni passati si è ripetutamente registrata una drastica riduzione a sette (dai cicli VIII al XIV). La nuova normativa sui dottorati introdotta dalla legge 210/98 sembrerebbe orientata a migliorare le cose, delegando alle singole università una certa autonomia decisionale in materia, e soprattutto prevedendo la possibilità di accedere ai corsi anche senza il beneficio della borsa di studio, un beneficio che negli anni passati ha rappresentato l’ostacolo più consistente per superare una così vistosa parsimonia nell’erogazione dei posti di dottorato messi a concorso. E tuttavia la strada per una piena integrazione nello “spazio europeo dell’istruzione superiore”, almeno a livello di dottorato di ricerca, sembra ancora abbastanza lunga. Per evidenziare le dimensioni quantitative del fenomeno, basti considerare che nell’anno accademico 1998/99 gli studenti iscritti ai corsi di dottorato attivati nell’Università di Pavia ammontavano a un totale di circa 250; nello stesso anno 700 studenti frequentavano il dottorato a Leida, 1950 a Salamanca, 2000 a Heidelberg e 5000 a Cambridge (7).

Queste ed altre peculiarità strutturali ed organizzative dei dottorati di ricerca italiani sono destinate a ripercuotersi incisivamente sul futuro professionale dei dottori di ricerca: mentre infatti negli altri Paesi europei il dottorato costituisce normalmente un pre-requisito d’importanza primaria per l’arruolamento universitario, in Italia la tendenza a considerare il dottorato come titolo preferenziale per accedere alla carriera accademica non è finora diventato una consuetudine diffusa e generalmente condivisa. Se in Italia tale criterio fatica ad attecchire, lo si può attribuire sia all’istituzione relativamente recente del dottorato nel nostro Paese, sia al limitatissimo numero di giovani studiosi cui è attualmente consentito l’accesso ai corsi dottorali.

Mancano, su scala nazionale, bilanci aggiornati circa il rapporto tra dottorato di ricerca e mondo del lavoro universitario: gli ultimi dati raccolti per un’indagine coordinata dall’ISRDS-CNR evidenziavano che meno di un terzo dei posti di ricercatore banditi tra il 1987 (ossia dopo il completamento del primo ciclo di dottorato) e il 1992 erano stati attribuiti a dottori di ricerca (8). Nella prima fase dell’esperienza italiana il titolo non sembra dunque aver costituito un canale prioritario per l’accesso all’università: tali dati, riferiti al 1987-1992, non forniscono tuttavia un quadro attendibile della situazione attuale. Si presume infatti che negli ultimi otto anni si sia registrata una significativa inversione di tendenza, anche in virtù di un decreto MURST del 20 dicembre 1989 in materia di “Rideterminazione dei settori disciplinari per i concorsi a posti di ricercatore universitario”, teso a favorire i dottori di ricerca mediante l’automatica attribuzione di un punteggio abbastanza vantaggioso (10 punti su 100 totali). È più difficile azzardare previsioni su quel che accadrà negli anni a venire, dal momento che la nuova normativa per il reclutamento universitario (legge 210/98, e successivi decreti presidenziali 390/98 e 117/2000) ha abolito qualsiasi tipo di automatica preferenzialità legata al possesso del titolo dottorale, un titolo che, nell’arruolamento dei ricercatori, concorre alla valutazione complessiva del candidato al pari di qualsiasi altra “attività di ricerca comunque svolta”.

Pur mancando dati generali circa il rapporto tra dottorato di ricerca e arruolamento universitario, si può tuttavia delineare un bilancio aggiornato della situazione nelle discipline musicali, dove, su un totale di ventotto posti di ricercatore messi a concorso negli ultimi dieci anni, diciotto sono stati assegnati a dottori di ricerca e dieci ad altri candidati. Il possesso del titolo dottorale sembra aver esercitato un certo peso, ancorché non decisivo, anche nel conferimento di assegni per la collaborazione ad attività di ricerca, che le università possono concedere a “dottori di ricerca o a laureati in possesso di curriculum scientifico professionale idoneo” (9): solo cinque dei nove assegni finora messi in bando nelle discipline musicali sono stati infatti assegnati a dottori di ricerca. Ancor più controversi i dati che emergono dal quadro dei contratti di insegnamento, di cui, nell’anno accademico 1999/2000, ha beneficiato un numero decisamente esiguo di dottori di ricerca in discipline musicali (meno del 10% su un totale di più di novanta contratti).

Questi dati offrono certo parecchi spunti di riflessione e si prestano a varie valutazioni. Numerosi studiosi, nell’ambito delle discipline musicali, hanno scelto percorsi formativi diversi e svolgono attività di ricerca di alto livello al di fuori dell’ambito universitario. L’unica certezza, in un orizzonte così complesso e contraddittorio, sembra rappresentata dal fatto che l’adeguato riconoscimento del titolo dottorale nell’università costituisce un obiettivo primario non solo per i dottori di ricerca, ma anche e soprattutto per la piena valorizzazione dell’istituto dottorale medesimo. È attraverso la creazione di una “cultura” del dottorato di ricerca che tale obiettivo può essere perseguito e conseguito: e se sarebbe di certo controproducente, se non addirittura ingiusto, regolamentare l’accesso alla carriera universitaria riservandolo ai soli dottori di ricerca, è tuttavia importante riconoscere il valore sostanziale e preminente di questo percorso formativo, in quanto può concorrere a creare un patrimonio di competenze importante per l’intera comunità scientifica.

Il lettore potrà del resto giudicare da sé, sulla base dei dati presentati in questo intervento, se l’organizzazione e la fisiologia dei corsi dottorali sia tale da produrre profili professionali coerenti con le esigenze della didattica e della ricerca universitaria. I dati riportati nelle pagine successive, relativi ai cinque dottorati in discipline musicali attivati presso le università di Bologna, Pavia-Cremona, Roma “La Sapienza”, Trento e Padova, delineano un identikit abbastanza accurato dei singoli corsi: vengono presentate informazioni sulla composizione dei consorzi universitari, i collegi dei docenti, i curricula, i seminari specialistici svoltisi negli ultimi anni. A partire dal ciclo VIII, inoltre, vengono riportate notizie più dettagliate circa le commissioni giudicatrici negli esami d’ammissione, gli ammessi ai corsi, i corsi di laurea e le università di provenienza, gli argomenti delle dissertazioni (e le eventuali pubblicazioni che ne sono derivate), i relatori che hanno seguito le ricerche individuali, e infine gli sbocchi professionali conseguiti (10).

I dati documentano la produttività dei quattro dottorati, sia in termini di percorsi formativi sia di risultati scientifici conseguiti: in particolare, evidenziano che il tipo di lavoro svolto all’interno dei corsi, pur se finalizzato all’elaborazione di un contributo scientifico con caratteristiche di originalità, rilevanza e completezza, non si riduce al mero svolgimento delle ricerche individuali necessarie per stilare la dissertazione. Grande importanza viene infatti attribuita a corsi e attività seminariali, intese sia a garantire un insieme di conoscenze comuni che di solito non rientrano nel patrimonio del giovane laureato, sia a combattere l’eccesso di specialismo che potrebbe derivare da una formazione interamente concentrata sull’elaborazione della tesi. Accanto a seminari di carattere metodologico, finalizzati all’apprendimento degli strumenti della ricerca, vengono infatti indetti seminari a carattere tematico, in cui vengono trattati problemi legati ad aree di ricerca diverse, sì da offrire ai dottorandi stimoli e riferimenti utili anche ad orientare la scelta dell’argomento di dissertazione. L’elevato numero dei docenti coinvolti in queste attività seminariali, interni ed esterni al collegio, in molti casi anche stranieri, testimonia l’alto grado di vivacità intellettuale che anima i corsi di dottorato in discipline musicali. Si consideri, inoltre, che, anche se le ricerche individuali vengono seguite con particolare attenzione da uno o più relatori, lo stato di avanzamento dei lavori per la dissertazione viene periodicamente discusso dall’intero collegio: tale assetto organizzativo, oltre ad offrire ai dottorandi una pluralità di apporti e stimoli scientifici, fa sì che il giudizio sulla qualità del loro lavoro venga periodicamente sottoposto a una comunità scientifica allargata. Proprio in questa pluralità di rapporti, scambi e occasioni di confronto si può identificare il valore sostanziale di quest’importante esperienza formativa.

NOTE

(1) Bianconi – Gallo – Leydi, I dottorati di ricerca cit., p. 201.

(2) Lo spazio europeo dell’istruzione superiore, dichiarazione congiunta dei ministri europei dell’istruzione superiore intervenuti al convegno The European Space for Higher Education, Bologna, 18-19 giugno 1999; il testo è consultabile nel sito internet http://www.murst.it/convegni/bologna99/dichiarazione/italiano.htm.

(3) A. Savini, I dottorati europei: una iniziativa del Gruppo di Coimbra, in Il dottorato di ricerca. Esperienze a confronto in Italia e in Europa, a cura di E. Fornasini, P. Nicolosi ed E. Stefani, Atti del convegno nazionale (Padova, 1999), Padova, CLEUP, 1999, pp. 119-126: 120.

(4) L’armonizzazione dell’architettura dei sistemi di istruzione superiore in Europa, Parigi, La Sorbona, 25 marzo 1998; il testo è consultabile nel sito internet http://www.murst.it/progprop/autonomi/sorbona/sorbi.htm.

(5) Cfr. la legge n. 127 del 15 maggio 1997 (art. 17, commi 95 e sgg.) e successive modifiche e integrazioni (legge n. 4 del 14 gennaio 1999, art. 1, comma 1; legge n. 264 del 2 agosto 1999; legge n. 370 del 19 ottobre 1999), e il “Regolamento in materia di autonomia didattica degli atenei” (decreto ministeriale n. 509 del 3 novembre 1999).

(6) Cfr. Savini, I dottorati europei cit., p. 125.

(7) Cfr. ivi, p. 124.

(8) S. Cesaratto – S. Avveduto – M. C. Brandi – A. Stirati, Il brutto anatroccolo. Il dottorato di ricerca tra università, ricerca e mercato del lavoro, Milano, Angeli, 1994.

(9) La normativa degli assegni di ricerca, istituiti dalla legge n. 449 del 27 dicembre 1997, art. 51, comma 6, è regolata dal decreto ministeriale dell’11 febbraio 1998 e dalla nota esplicativa MURST del 12 marzo 1998. I limiti di età (mediamente 35 anni) stabiliti per l’attribuzione degli assegni ha fortemente penalizzato la categoria, nell’insieme stagionatella, dei dottori di ricerca.

(10) Per i dati relativi ai cicli precedenti si rinvia a Bianconi – Gallo – Leydi, I dottorati di ricerca cit., pp. 202-207.