Diciassettesimo Colloquio di Musicologia
del «Saggiatore musicale»
Bologna, 22-24 novembre 2013
Abstracts
Rachmaninov, ovvero la sconfitta di un progressista
Compositore troppo frettolosamente etichettato come epigono di un presunto partito filo-occidentalista di matrice čajkovskijana, Rachmaninov (1873-1943) fu in realtà una personalità di spicco della cultura musicale russa fin de siècle. Si affermò ancora giovanissimo sulla scena moscovita come moderato progressista, non del tutto estraneo alle istanze che ancora promanavano dall’avanguardia (all’epoca già Vecchia guardia) pietroburghese, da cui aveva ereditato il gusto per il colorismo (Aleko, Capriccio su temi zigani) e un iniziale fascino per la musica a programma (Il principe Rositislav e La rupe). L’esotismo musicale peraltro tende in lui a fondersi sin dagli esordi con lo struggente ziganismo del folklore urbano locale, assimilato negli anni di formazione al Conservatorio e, col tempo, sapientemente dissimulato in una più generica propensione per l’afflato patetico. Punto d’arrivo dello sperimentalismo giovanile è la Sinfonia in Re minore, op. 13 (1897), in cui il compositore tenta ambiziosamente di conciliare, attraverso il magistero accademico, istanze musicali eterogenee. La clamorosa débâcle a cui essa andò incontro – con tanto di stroncatura ufficiale del velenosissimo Kjui – lo spinse, dopo un lungo periodo di silenzio, su terreni decisamente meno accidentati, e ne inficiò di fatto le moderate istanze innovatrici.
Giunto a piena maturità artistica negli anni precedenti la Rivoluzione d’ottobre – scrive il suo capolavoro sinfonico, Le campane, lo stesso anno in cui Stravinskij scandalizza Parigi col Sacre du printemps –, Rachmaninov emigra forzatamente negli Stati Uniti, ‘riciclandosi’ come pianista concertista. L’insanabile percezione di déracinement culturale lo costringe a una (seconda) disperante afasia, di fatto mai pienamente sanata, sì da farne agli occhi della critica uno spettro (tardo)romantico che si aggira nostalgicamente fra le macerie dell’Europa modernista. Le Danze sinfoniche (1941) – vero e proprio testamento spirituale del compositore – nascondono sotto una patina vagamente novecentesca le tracce del sinfonismo russo del tardo Ottocento e, paradossalmente, suonano oggi al nostro orecchio come frutto ormai tardivo di una sinfonia – quella in Re minore – che cinquant’anni prima aveva precorso tempi.