Silvana Chiesa
Avvicinare all’opera un pubblico di adolescenti tendenzialmente a digiuno e magari un po’ sospettosi nei riguardi del genere, introdurli al mondo del melodramma, dei suoi soggetti e dei suoi meccanismi di funzionamento e di significazione impone una serie di scelte ben motivate in ordine a contenuti e metodi di lavoro.
Il ‘cosa’ (la scelta del repertorio)
Partiamo allora da un riflessione sul ‘cosa’, ossia sui criteri di scelta dei contenuti. In generale, uno dei concetti-guida che applico all’atto della scelta di un repertorio d’ascolto è quello dell’esemplarità.1 E nel caso più specifico del teatro musicale, credo che l’esemplarità vada trovata nel concorso di due fattori:
– la presenza estetica attuale di una certa opera: una presenza tuttora (o talvolta oggi di nuovo) viva, potente, testimoniata (e al tempo stesso veicolata e rafforzata) dalla sua inclusione in stagioni teatrali e in cataloghi video e discografici;
– l’importanza rivestita dall’opera in questione nella storia del genere, quale emblema di un sottogenere, di una tematica, di “convenienze” teatrali, di stile d’autore e via dicendo.
In linea di principio, i due paradigmi di ragionamento e di scelta appaiono distinti. E tuttavia all’atto dell’individuazione di un corpus di opere credo che entrambi possano e anzi debbano essere fatti pragmaticamente interagire.
Orientata in questo senso, la mia proposta è un modello di percorso modulare, fondato sull’indagine di un certo numero di lavori distribuiti lungo un arco temporale tendenzialmente ampio, e però ritagliato a prescindere da ottiche evoluzioniste e da un’idea di storia intesa come processo indirizzato in senso teleologico. Un modello che si ispira, piuttosto, alla didattica della storia secondo “linee di sviluppo” di Montagu V. C. Jeffreys e che trova coerenza interna nell’assunzione di un certo nucleo portante unitario.2
Assunto in funzione di fil rouge, questo servirà come termine di confronto rispetto al quale commisurare le opere scelte andando alla ricerca di affinità e differenze da mettere in relazione con i rispettivi orizzonti creativi. A seconda dei casi, esso potrà consistere ad esempio in:
– un soggetto ricorrente (un caso su tutti: il mito di Orfeo, il quale, forte della sua secolare presenza sulle scene musicali, ci permetterà di affiancare il primo capolavoro del teatro in musica a opere emblematiche dei più svariati sottogeneri e stili);
– un gruppo di fonti letterarie e/o drammatiche derivate da un medesimo autore (p.es. Shakespeare) o da un medesimo àmbito (p.es., il teatro greco); – una tematica comune (una su tutte: la passione amorosa, altro elemento trasversale di lampante e notoria lunga durata).
Considerata la storica e specifica tendenza della librettistica a dedurre i propri soggetti dal doppio bacino della narrativa e del teatro di parola,3 il binario comune su cui costruire un percorso di incontri propedeutici al genere “opera” potrà altrimenti identificarsi non tanto in un tema, ma in un problema, anzi nel problema. Quello che nessuno degli altri percorsi in realtà esclude o potrebbe escludere, ma che anche da solo merita di stare al centrocampo dell’interesse: cosa succede nel passaggio dalla pagina narrata o recitata alla scena operistica? A parità di soggetto, cosa cambia e perché?
In cosa consistono, insomma, le specificità ‘profonde’ del teatro musicale? Apparentemente meno connotato, quest’ultimo filo conduttore avrà nondimeno il vantaggio di portare diritti al cuore del problema e di questioni nevralgiche quali:
– natura del testo librettistico;
– strutture drammatico-musicali;
– scelta e distribuzione delle tipologie vocali;
– tipi di vocalità;
– ruolo dell’orchestra.
In quanto basato sul confronto sia tra opera e fonte(i) di riferimento sia tra opera e opera, è chiaro che ciascuno di questi percorsi implica un taglio di natura intertestuale. In questo io trovo una chiave d’accesso utile per avviare alla comprensione dell’opera (nel senso di opus, ma anche di genere) in quanto ‘sistema’.
A orientarmi in questo senso c’è un ulteriore motivo. Nella nostra epoca sempre più tecnologica, per esperienza diretta tutti noi stiamo realizzando quanto azioni ormai abituali e quotidiane quali la consultazione di motori di ricerca in internet o finanche il banale zapping televisivo o radiofonico ci stiano allontanando in modo e apparentemente inevitabile e certamente veloce da logiche di tipo lineare. Web, ‘rete’: ma in queste condizioni, il sapere – soprattutto dei più giovani, forzatamente meno attrezzati sul piano della logica previgente – rischia al contrario una frantumazione che comporta il pericolo del non-senso, laddove, al contrario, l’alternativa ideale dovrebbe invece consistere nella maturazione di un pensiero di tipo reticolare, che sappia scovare e scavare percorsi di senso al contempo discriminando e connettendo elementi eventualmente anche distanti sul piano spazio-temporale. Ma se questo è il rischio, il vantaggio è, all’opposto, quello di menti in ogni caso pre-disposte all’apertura, allo sguardo laterale. E allora, una volta capita la situazione, tanto vale coglierla nei suoi valori positivi, imparando a farla fruttare sul piano didattico con un insegnamento orientato a un’idea di sapere inteso come capacità di collegamento, di discriminazione, di confronto.
Il ‘come’ (l’esperienza sul campo)
Insegno Storia della musica per Didattica. Il problema del ‘cosa’ ora tratteggiato mi riguarda in certo modo due volte, in quanto progetto e svolgo corsi specificamente mirati a far sì che i miei studenti imparino a loro volta a progettare e realizzare percorsi di ascolto guidato.
Quelli esposti sono dunque i criteri che effettivamente discuto e invito ad applicare nell’ideazione di percorsi introduttivi all’opera che da qualche anno i miei studenti vanno realizzando sotto forma di tirocinio guidato presso il Liceo classico di Alessandria.
Finora si è trattato di cicli annuali di circa sei incontri, ciascuno della durata di due ore. Generalmente dedicata a una singola opera, ogni lezione è impostata al fine di guidare la classe a:
– inquadrarne l’articolazione;
– approfondire in particolare la conoscenza di alcuni suoi momenti nevralgici;4
– metterla a confronto con la(e) sua(e) fonte(i) di riferimento, con le altre opere via via studiate, con elementi del suo contesto di riferimento;
– interrogarsi sul perché delle differenze riscontrate fra opera e fonte(i) e fra opera e opera.
Contemporaneamente, ogni incontro è stimolo a far riflettere su quanto e come – magari a distanza di secoli – quella certa opera (o quel suo singolo brano) ancora sappia parlarci e perché. L’obiettivo è insomma di avvicinare al melodramma in quanto affascinante, complesso prodotto creativo, mai sganciato dall’epoca che lo genera, ma allo stesso tempo capace di dialogo con noi.
Il ‘perché’ (ossia ancora il ‘come’ e anche il ‘per chi’)
Negli anni, percorsi diversi su opere diverse. Alla base, però, un orientamento comune, che è poi, da parte mia, la risposta concreta alla domanda di fondo: cosa significa insegnare l’opera ai ragazzi? perché insegnarla, e come? Dove la mia risposta sta nell’impegno di far capire a studenti e studentesse adolescenti che l’opera non è questione morta o anche solo un po’ ammuffita, ma che al contrario fa parte della nostra cultura-ambiente e quindi come genere ci parla e ci appartiene più di quanto forse non sospetteremmo, come ci dimostra l’ampia diffusione di certi brani (si pensi al «Libiam ne’ lieti calici» della Traviata, alla Habanera di Carmen, al «Vincerò!» di Turandot…) attraverso i canali più disparati e anche meno convenzionali (il cinema, la pubblicità radiofonica e televisiva, le sigle dei campionati di calcio, le suonerie dei cellulari… ma forse che le figurine Liebig di fine Ottocento non sono anch’esse testimoni eloquenti di una certa fortuna dell’opera in quel mondo?).5
Ancora più importante: insegnare l’opera ai ragazzi significa per mio conto farli riflettere su quanto essa sia spesso in grado di parlarci in modo eloquente di ambienti, di visioni del mondo, su quanto sia capace di dirci e di farci provare emozioni. L’opera è sempre impastata di passioni umane, e i ragazzi spessissimo ci mostrano la sorprendente capacità di coglierle con finezza già fin dal primo ascolto. Capirle (e capire come la musica le sappia esprimere) significa capire l’opera. Ma, contemporaneamente, significa imparare a leggere in modo sempre più fine nelle relazioni umane e prima ancora in sé stessi e cioè in un’“interiorità” che, espressa e sollecitata dal canto, è da intendersi in senso non solo metaforico. L’opera sa commuoverci e parlarci di emozioni e ci riesce perché le “esterna”, e in un modo che letteralmente ha a che fare con l’interiorità e tocca l’interiorità. Frutto di un corpo interiormente vibrante, se la avviciniamo adeguatamente attrezzati e senza pregiudizi la voce davvero sa toccarci nel profondo. E noi comprendiamo cosa ci dice ascoltandola, ma contemporaneamente (e anche in questo caso fuor di metafora) ascoltando noi stessi. Opera, quindi, per dirla con Lorenzo Bianconi, come “scuola del sentimento”.6
Puntare agli obiettivi indicati significa lavorare moltissimo sul potenziale simbolico-espressivo del fatto musicale e su continui rimandi a situazione scenica, gesto e parola attraverso esperienze di lettura/ascolto/visione di un certo numero di brani selezionati all’interno di ogni titolo. Dove la successione dei tre momenti non sarà necessariamente nell’ordine appena esposto, ma potrà variare in funzione del risultato via via perseguito. Così, in certe condizioni potrà ad esempio rivelarsi funzionale partire non dalla lettura del testo librettistico, da riservare semmai a una fase successiva, e tanto meno dalla visione della scena, ma invece dal puro e semplice ascolto, in un gioco di ‘scoperta’ del personaggio (o dei personaggi) e della situazione scenica condotto in modo tale da concentrare il più possibile l’attenzione sulle qualità della musica e dunque sulle sue possibilità drammaturgiche. Una scelta strategico-didattica (come già detto non l’unica, pena oltretutto una certa meccanicità nella conduzione degli incontri) motivata dalla valutazione sia del senso di spaesamento (e quindi di rigetto) che il lessico e la sintassi dei libretti d’opera spesso di primo acchito rischiano di produrre, sia del pericolo che, per chi è abituato più a vedere che ad ascoltare (e non va neppure ricordato come questa sia ormai per lo più la norma), gli elementi di significazione vengano derivati più dalla scena che dalla musica, essendo questa vissuta come una sorta di semplice sfondo sonoro.
In questa prospettiva generale, la scelta dei singoli brani sarà guidata dalla possibilità di introdurre progressivamente nuovi elementi di comprensione dell’opera in oggetto e, induttivamente, del suo sottogenere di riferimento. Insieme, un criterio di selezione interna sarà anche costituito dalla disponibilità di ciascun pezzo a farsi “banco di esercitazione” per attività di analisi e di riflessione sulla portata drammatica ed espressiva delle varie dimensioni musicali. (Considerato il tempo a disposizione sempre inevitabilmente limitato, a decidere saranno allora elementi quali il grado di pregnanza figurale delle linee vocali o strumentali, l’eloquenza drammatica della forma, la portata simbolica dei timbri strumentali, ecc.) Sullo sfondo, l’obiettivo di procurare allo studente – insieme con i contenuti, e anzi mediante quelli – attrezzature concettuali, paradigmi di ragionamento e di analisi: strumenti cognitivi indispensabili per affrontare in progressiva autonomia altre e nuove opere all’interno di un processo (virtualmente senza fine) di maturazione di esperienze conoscitive ed estetiche.
«S’intende che oggi la scuola non può limitarsi a offrire pacchetti di saperi. Ha il compito di costruire attrezzature intellettuali, competenze, abilità che stanno alla base dei processi di costruzione dei saperi, cioè dei processi di elaborazione della nostra razionalizzazione della realtà». Quanto Ivo Mattozzi scrive a proposito dell’insegnamento della storia nella scuola di base non mi sembra poi così distante dagli obiettivi di una didattica del melodramma.7
1) Sulla questione dell’esemplarità quale criterio nella scelta di un repertorio di ascolto, cfr. Maurizio Della Casa, La formazione musicale nella scuola delle competenze e della continuità, «Il Saggiatore musicale», X, 2003, pp. 123-133.
2) Montagu V. C. Jeffreys, L’insegnamento della storia secondo il metodo delle linee di sviluppo, Firenze, La Nuova Italia, 1983 (9a rist.)
3) Cfr. Lorenzo Bianconi, La drammaturgia musicale, Bologna, Il Mulino, 1986.
4) Cfr. Id., Don Alonso vs Don Bartolo, «Il Saggiatore musicale», XII, 2005, pp. 35-76.
5) Sulla presenza del melodramma nella cultura italiana dell’Ottocento, cfr. Roberto Leydi, Diffusione e volgarizzazione, in L. Bianconi e G. Pestelli (a cura di), Storia dell’opera italiana. Teorie e tecniche immagini e fantasmi, VI, Torino, EDT, 1988, pp. 301-392.
6) Bianconi, Don Alonso vs Don Bartolo, cit., p. 45; e Id., La forma musicale come scuola dei sentimenti, in G. La Face e F. Frabboni (a cura di), Educazione musicale e Formazione, Milano, FrancoAngeli, 2008, pp. 85-120.
7) Ivo Mattozzi, Che il piccolo storico sia!, «I viaggi di Erodoto», n. 16 (aprile 1992), pp. 168-180 (ora anche in www.clioforma.it/public/documenti/strumenti/Storia_locale/ilpiccolostorico.pdf).