Hans Heinrich Eggebrecht
(Friburgo in Brisgovia)
TRE PEZZI BREVI
Cos’è il tempo? Non lo so. Però mi piacerebbe saperlo. Per questo me lo chiedo. Mi piacerebbe saperlo in rapporto alla musica, di cui mi sono sempre occupato e nella quale quel che chiamiamo ‘tempo’ ha una parte così importante. E mi piacerebbe saperlo anche in via di principio – non solo perché la sfera dei principii deve accompagnare ogni approccio alla musica, ma anche perché quando si diventa vecchi si avvicina la fine del tempo concesso alla nostra vita. Mi piacerebbe unire l’elemento di principio alla musica, ed entrambi alla vita. Ma so già che, nonostante le domande e le riflessioni, non saprò mai cosa sia il tempo.
Si dice: ‘non ho, ho poco, ho molto tempo’; oppure: ‘il tempo mi fugge’, oppure ancora: ‘mi prendo tempo’. Tutto questo, e altro del genere, quando vien detto, noi lo comprendiamo senz’altro. Ma cos’è quella cosa che non ho, o di cui posso dire che ne ho poca, o molta, che mi fugge e che mi posso prendere?
Credo che sia possibile trovare una risposta a domande del genere considerando anzitutto l’orologio. L’orologio è una macchina inventata dall’uomo per misurare il tempo, che si basa su movimento, unità di misura e numero. Qui l’unità di misura è determinata geofisicamente e viene misurata facendo riferimento al sole, alle stelle o alle maree, all’acqua o alla sabbia, a un sistema di rotelle con contrappesi, molle e pendolo, oppure all’elettricità, al quarzo e all’atomo. Tuttavia non è il funzionamento della macchina, né la storia di questo funzionamento, unito a un costante perfezionamento della misurazione, che ci interessano qui, ma solo il fatto che esiste una misurazione del tempo, l’orologio (Uhr) – parola che deriva da una unità di misura, cioè dal latino hora, ‘ora’.
Le affermazioni tipiche della vita quotidiana ricordate all’inizio – ad esempio ‘non ho tempo’, ‘mi prendo tempo’, ‘il tempo non conta’, ‘il tempo è denaro’ – sono affermazioni fatte in riferimento all’orologio, anche quando non ci pensiamo espressamente. Il tempo scorre in misura calcolata, e nei miei programmi è già occupato, cosicché io non ho tempo, oppure me lo prendo per far qualcosa, oppure mi è indifferente rispetto ai miei progetti, oppure è a mia disposizione e lo sfrutto. Questo tempo misurato in unità, che scorre e in merito al quale posso decidere se non ne ho o se me lo prendo e se e come sfruttarlo, lo chiamerò ‘tempo dell’orologio’ (Uhrzeit) (1). E forse alla domanda su cosa sia il tempo si potrebbe rispondere così: il tempo è tempo dell’orologio, o per usare un’altra espressione, ‘tempo cronometrico’. Esso è sempre e ovunque lo stesso, solo che viene calcolato con sfasature nelle regioni corrispondenti ai diversi fusi orari del pianeta, a seconda della distanza di ciascuna regione dall’ora solare media a zero gradi di longitudine. La vita tutta, il pensiero e il normale disbrigo delle faccende quotidiane sono posti nel tempo, che l’orologio misura e mostra.
Ma cos’è il tempo al di fuori dell’orologio? Si può dire che ci sia? O c’è tempo solo perché c’è l’orologio che lo misura? Allora non ci sarebbe tempo = tempo, ma tempo = misura. Dunque il tempo è la misura di qualcosa per indicare la quale, allorché la misuriamo, non disponiamo di altro nome che ‘tempo’?
Quando diciamo ‘non ho tempo’, o ‘mi prendo tempo’, ‘il tempo mi fugge’, ‘il tempo si è fermato’, tutte queste affermazioni, consapevolmente o no, vengono fatte sullo sfondo del tempo dell’orologio. Ma esse sovrappongono e sostituiscono la misura dell’orologio con un altro metro; non valgono per tutti, ma per me: esse costituiscono il tempo nella mia coscienza. Non avere tempo o prendersi tempo significa che io non ho tempo, che io me lo prendo.
In questo senso si può distinguere tra tempo oggettivo e soggettivo. Il tempo oggettivo è il tempo dell’orologio, la cui misura vale per tutto e tutti; lo si può chiamare anche ‘tempo assoluto’, poiché la sua misura, ab-soluta, indipendente e intoccabile, vale sempre e ovunque, cosicché il tempo non è né veloce né lento, né breve né lungo, ma sempre e ovunque lo stesso. Il tempo soggettivo invece modifica la forma della misura prodotta dall’orologio tramite un io che pone il metro di misura quando dice ‘il tempo non mi passa mai’, ‘ora ho tempo’ (oppure no), ‘mi scappa via, ma io me lo prendo’.
Immanuel Kant difficilmente sarebbe d’accordo con questa distinzione tra tempo soggettivo e oggettivo, stando all’estetica trascendentale della sua Critica della ragion pura. Per lui il tempo è interamente soggettivo, dal momento che – al pari dello spazio – sta alla base di ogni intuizione e conoscenza in quanto forma a priori pura, cioè non empirica. Il tempo è “unicamente una condizione della nostra (umana) intuizione … e in sé, fuori del soggetto, è nulla”. In ciò consiste “l’idealità trascendentale del tempo, secondo la quale il tempo, se si astrae dalle condizioni soggettive dell’intuizione sensibile, è assolutamente nulla e non può essere annoverato tra le cose in sé stesse (prescindendo dal loro rapporto con la nostra intuizione), né come sussistente né come inerente”. Il tempo “non inerisce agli oggetti stessi, ma semplicemente al soggetto che li intuisce” (2).
Può darsi: può essere che il tempo sia una condizione aprioristica della nostra intuizione. Ma questa condizione dev’essere detta soggettiva in quanto a priori? Per contro, come potrebbe ancora interessarmi un alcunché di oggettivo, se non mi è accessibile sulla base della mia forma a priori dell’intuizione? Non mi interessa, e ciò vale in generale. Senza la distinzione tra oggettivo e soggettivo io non posso pensare il tempo; ora trasferirò questa distinzione al livello del tempo a priori. Mi interessa il fatto che vi siano tempi diversi, uno dei quali io chiamo ‘tempo oggettivo’, e si tratta del tempo cronometrico (il tempo dell’orologio nel senso più ampio del termine); esso scorre indipendentemente dai soggetti, incontenibile e non influenzabile, dall’inizio sino alla fine dei tempi. I soggetti però misurano questo tempo oggettivo (in relazione ad essi) con metri soggettivi, allorché dicono: ‘il tempo non passa mai’, oppure ‘è volato’, ‘si è fermato’, ‘non ho tempo, ma me lo prendo’ eccetera. Tutto questo lo chiamerò, in modo forfettario, ‘tempo soggettivo’.
Dunque ci sono due tempi, quello oggettivo che chiamo ‘tempo dell’orologio’, e quello soggettivo, che può essere chiamato ‘tempo-concezione’ (Auffassungszeit) (3)– stima dell’orario (‘non ho tempo’), ma se possibile anche senza stima –, che al di là dell’orologio costituisce un tempo affatto personale. Io dico due tempi, e non due tipi di tempo, perché ciò comporterebbe l’esistenza, sullo sfondo, di un tempo, il tempo, cosicché tempo dell’orologio e tempo stimato sarebbero due tipi di un unico e medesimo tempo. Allora ci troveremmo di nuovo davanti al problema di cosa sia quest’unico tempo, e questo problema, finché posso, vorrei evitarlo. Infatti credo che sia proprio questo unico tempo quello di cui non so e mai saprò cosa sia.
Se ora, dunque, vi sono due tempi, allora potrebbero anche essercene più di due. Ma anzitutto fermiamoci a questi due tempi, quello determinato dall’orologio e quello determinato dalla mia stima, dalla mia concezione. Questi due tempi, tenteremo ora, tenendo presente la musica, di farli oggetto di dimostrazione (relativa al fatto che ci sono) e di riflessione (su cosa siano).
Tempo dell’orologio e tempo-concezione sono, in relazione sia alla dimensione musicale della musica sia al problema circa l’elemento fondamentale dell’essere del tempo, relativamente privi d’interesse; in questo contesto dovranno essere toccati solo succintamente ed elaborati sino al momento in cui nella nostra riflessione spunterà qualcos’altro.
Tutta la musica dura un certo tempo, misurabile con l’orologio. Non di rado la durata dell’esecuzione è indicata nelle partiture a stampa. Nell’edizione Universal della Prima sinfonia di Mahler è indicata “circa 50 minuti”, in quella della Sinfonia op. 21 di Webern “10 minuti”. Questo interessa il programmatore di concerti, e nelle opere edite di recente la cosa ha un peso nella definizione delle percentuali da corrispondere agli autori. Di frequente, inoltre, la composizione si orienta su indicazioni di questo genere, ad esempio nel caso della musica per film o di composizioni commissionate per feste. Questo tempo della musica, il tempo di esecuzione cronometrabile, in rapporto alla musica di per sé è un’esteriorità, che poco o nulla dice sul suo interno in quanto evento temporale. Comunque sia, si constata che per la misurazione cronometrica la musica offre due punti, l’inizio e la fine, col che si afferma che essa, in quanto realtà per sé, è delimitata rispetto alla realtà nella quale si svolge; ciò significa che nell’essere temporale dell’essere essa ha una propria presenza (Dasein). Ma in merito al problema di questa delimitazione e in merito al tempo e al modo in cui esso si manifesta all’interno di tale delimitazione, il tempo di esecuzione non dice nulla.
Ma se anche potessimo entrare armati di orologio all’interno della musica, per pianificare e misurare gli eventi musicali con, poniamo, l’unità di misura del secondo e delle sue frazioni (nella misura in cui ciò è possibile in modo univoco), non verremmo a capo del problema del tempo in musica. Otterremmo valanghe di numeri, che presi per sé non soltanto sono muti, ma anche ciechi. Tanto più che quel che essi designano, cioè i tempi in sé, non esiste affatto. Una durata, ovvero una quantità di durate, separate da quel che dura sono applicabili a infiniti eventi o astraibili da essi; ma prese per sé non sono nulla. Il tempo inizia ad essere qualcosa soltanto quando c’è là qualcosa che dura. E lo stesso vale per la misurazione del tempo o della durata. La misura in sé è affatto indifferente, poiché può valere per un’infinita molteplicità, e presa per sé svanisce nel nulla.
È così nella vita in genere: ‘un’ora’ o ‘un secondo’ non dicono nulla, se in pari tempo non vien detto, o si sa, a che cosa si riferiscono. Non è già il tempo che accade, ma l’accadere, e solo allorché l’accadere si fa evento il tempo accade. Tutto il tempo è tempo dell’orologio, dal momento che può essere misurato. Ma il tempo dell’orologio, che oggettiva il tempo, cioè lo rende astratto, è sempre tempo carico di eventi, tempo-evento, dal momento che senza eventi non v’è realtà.
Il tempo come tempo-evento si risolve nel soggetto: viene percepito, o per dirla più esattamente non è il tempo che viene percepito, bensì l’evento, e a seconda della qualità della percezione dell’evento nel soggetto si misura la concezione del tempo. Se un certo evento mi annoia, se dunque non ha per me nessuna o poca qualità, il tempo mi appare lungo (e breve nel ricordo). Ciò sembra dipendere dalla qualità dell’evento, dalla sua densità e varietà, dal suo grado di informazione, da quanto riesce ad attivare la percezione. In ultima istanza però a decidere sulla lunghezza o brevità non è la qualità degli eventi, bensì la qualità della percezione, la risonanza nel soggetto, la concezione. Un evento, e con esso il tempo-evento, viene concepito: il tempo-evento diviene tempo-concezione. Preso per sé, l’evento ha tanto poca realtà nella vita materiale quanta ne ha l’orologio che lo misura. Reale nel senso della vita esso lo diviene solo grazie ad un io, a un soggetto, alla sua esperienza vissuta dell’evento. Perciò il tempo-concezione può anche essere detto ‘tempo vissuto’.
Anche riguardo a ciò che sia il tempo-concezione e al modo in cui esso domini il tempo si può dare una delucidazione ricorrendo alla musica, anche se qui l’elemento specifico del tempo musicale non vien posto al centro dell’attenzione; intendo parlare di quella peculiarità della musica che noi sempre esigiamo, per poi confrontare tale peculiarità con la vita. Una stessa musica, noiosa per l’uno, scorre con la rapidità del lampo per un altro. Quest’impressione di lunghezza o brevità non può in ultima analisi dipendere dal valore estetico della musica, dalla densità e dalla qualità dei suoi eventi. È piuttosto una faccenda che riguarda il modo che ha il soggetto di concepire, che riguarda il suo gusto, la sua esperienza estetica, le sue aspettative, il modo in cui si sente in quel dato momento, il suo tono emozionale: e si può aggiungere che esistono gruppi, cerchie di persone che hanno gusti, cultura, aspettative o condizioni emotive analoghe.
Il tempo in sé si sottrae all’intervento della speculazione che abbiamo tentato sin qui. Il tempo come tempo dell’orologio svanisce nell’evento, nel tempo-evento, e l’evento svanisce nella concezione, nel tempo-concezione. L’orologio può misurare ogni cosa, ma ha tanto poca realtà quanto l’evento che misura. Nella realtà concreta della vita il tempo è sempre tempo-concezione. ‘Io non ho tempo’, ‘io ho molto tempo’, ‘mi prendo tempo’, ‘il tempo mi fugge’, ‘tempo vuoto’, ‘tempo pieno’, ‘bei minuti’, ‘un brutto quarto d’ora’: tutto ciò è affare della concezione. Il tempo dell’orologio in quanto tempo-evento, che è soggettivo in quanto tempo-concezione, non è qualcosa di specificamente musicale, ma vale nella vita in genere.
Stessa validità generale l’hanno anche parecchi altri concetti di tempo che vengono impiegati in rapporto alla musica, e che per via di tale validità generale non colgono lo specifico del tempo musicale. Ad esempio il tempo dell’interpretazione: cioè la differenza nella durata di uno stesso brano, rintracciabile sin nei minimi dettagli, nel caso di esecuzioni dal vivo ripetute. Nessuna è identica ad un’altra, sul piano della durata. Ma questo vale anche per la vita in genere: tutto quel che viene ripetuto può essere legato a differenze temporali. Oppure prendiamo lo stacco del tempo (Tempozeit): ovvero il tempo richiesto – nel quadro della soggettivizzazione moderna della musica – da indicazioni quali Adagio o Presto, lento o rapido, rallentando o accelerando, giù giù sino alle indicazioni metronomiche prescritte per ogni singolo episodio. Ma anche tutti gli altri eventi della vita di relazione possono essere legati ad esigenze temporali, verbali o cronometriche.
Un’altra prospettiva indirizzata alla musica e però in pari tempo di portata generale si schiude allorché gli eventi vengono ponderati in rapporto alla modalità del loro decorso temporale. È quanto si chiama correntemente ‘riflessione sul tempo’, e si potrebbe parlare di diverse forme di questa riflessione che cerca di pensare il tempo. Ma il tempo, come tempo per sé, non lo si può pensare in forme. Lo si può pensare solo sulla scorta di eventi, che come tali mostrano differenti decorsi temporali. Tutto questo, lo chiameremo ‘forma di decorso’ (Verlaufsform), ‘tempo di decorso’ e ‘pensiero che pensa il decorso degli eventi’.
Una delle forme di decorso è il tempo di decorso orientato verso una mèta, teleologico. Esso ha una parte dominante nella musica occidentale. Il tono di una melodia medievale viene determinato a partire dalla finalis; una dissonanza tende alla risoluzione; una clausola o cadenza si muove verso l’aggregato tonico di chiusura; un’opera o una sinfonia gravitano verso il Finale. In particolare, ha una natura teleologica la tonalità basata sulle funzioni armoniche, poiché in essa gli aggregati sonori, in quanto funzioni, sono costantemente in movimento verso punti di riferimento: ogni aggregato mira al successivo. Il decorso da punto a punto è qui un movimento da mèta a mèta, nel quale, una volta raggiunta la cadenza finale, non solo si compie temporalmente il processo di formazione in figura dell’intero, ma anche la finalità dominante nella figura raggiunge il suo punto finale. Queste forme musicali dal decorso teleologico corrispondono alla dominanza delle concezioni, dei regolamenti e dei progetti in genere orientati verso una mèta, nel pensiero politico, scientifico e religioso. La vita umana è orientata verso la morte. La fede cristiana nella salvezza, che ha plasmato in modo così profondo il pensiero occidentale, è determinata in senso teleologico.
Un’altra concezione, contrapposta alla teleologia, pensa in termini di moto circolare. Nel decorso circolare il movimento torna incessantemente a sé, in modo da non aver né mèta né inizio né fine: l’attimo è qui caratterizzato dalla onnipresenza. Nella musica occidentale questa forma di pensiero appare nella dissoluzione dell’armonia funzionale, nella sistematizzazione dell’atonalità, nei fenomeni della forma puntillistica basata sulle serie e dell’alea controllata. La musica viene deteleologicizzata escludendone qualsiasi finalità; viene detemporalizzata eliminandone ogni profilo definito (Gestalt) e ogni formazione basata su tali profili definiti. Il pensiero che pensa il decorso vuol liberarsi dalle catene che lo legano alle gerarchie e alla loro inquietudine governata dall’onnipotenza della mèta. Rifacendosi a posizioni tipiche della filosofia orientale, il pensiero vuole sbarazzarsi anche in musica di ogni limite, per giungere all’unità dell’essere che riposa in sé stesso.
Se si vogliono rintracciare le forme del pensiero che pensa teleologicamente il decorso temporale e altri tempi di decorso non teleologici della musica, bisogna far ricorso alla storia. In tal modo si potrà stabilire che non esiste una riflessione sul decorso temporale che valga una volta per tutte, ma solo appunto la sua storia, che conduce a sempre nuove intuizioni ed elaborazioni del decorso temporale, cosicché a partire da qui non è possibile ottenere (in via di principio) una risposta alla domanda su cosa sia il tempo musicale. E in secondo luogo si vedrà che un pensiero che cerchi di pensare il decorso temporale nell’ambito musicale si trova sempre storicamente accavallato ad una riflessione analoga di carattere generale, di modo che anche a partire di qui non è dato alcun elemento specificamente musicale.
Il pensiero che pensa il decorso degli eventi, che costituisce il tempo di decorso, si fonda sul pensiero del paradigma temporale articolato in presente, passato e futuro, quale è rispecchiato, nella grammatica, nei tempi del verbo. Il presente è simultaneamente ricordo e attesa. Un punto temporale è sempre un punto del tempo, in quanto è determinato nel farsi evento da qualcosa che veniva prima, ed è orientato verso qualcosa che viene dopo. Il pensiero temporale che pensa il decorso degli eventi contraddistingue la modalità ontologica dell’uomo e pertanto anche la musica. Un gesto, un motivo o un tema intesi come figura musicale; una ripetizione o una trasformazione intesi come processo cui inerisce una figura; una fuga, una variazione o una sonata intesi come configurazione di una forma: tutto questo può essere inteso nella sua peculiarità solo se l’ascolto confronta costantemente il presente con ciò ch’è passato, per riassumere entrambi nell’attesa e nella recezione di ciò che sta per sopraggiungere, in quanto figura e configurazione. Quanto viene pensato temporalmente e musicalmente arricchisce l’ascolto musicale di punto in punto mediante l’addizione di unità dotate di senso, fenomeno in cui la percezione, nell’atto di comprendere la musica, ricorda il passato come presente che attende il futuro e lo incorpora, sino al punto in cui il decorso della figura giunge al compimento e termina.
Non ci interessa qui il fatto che in rapporto al pensiero teleologico anche quello temporale abbia una storia, e che nella nuova musica, sulla base dell’atonalità, tenda a raccogliere l’essere nel punto che chiamiamo ‘presente’. Ci limitiamo a sottolineare soltanto che anche il pensiero che pensa il decorso musicale non è mai stato, neppure oggi, un pensiero specificamente musicale, ma viene sempre fiancheggiato da rappresentazioni del tempo che a loro volta sono pensate, esplicate filosoficamente e realizzate musicalmente anche al di là dell’ambito musicale, in quanto forme storiche generali di pensiero, dipendenti dallo sviluppo culturale. Il tempo specificamente musicale, che costituisce nella musica l’elemento specifico del tempo, non può dunque essere rintracciato neppure orientandosi sul tempo di decorso temporale.
Ma la domanda ora è: cos’è il tempo specificamente musicale, se non è tempo dell’orologio, né tempo dell’interpretazione e dello stacco di tempo, né tempo-concezione o tempo vissuto, né tempo del paradigma temporale, né tempo pensato teleologicamente o circolarmente, visto che tutti questi tipi di riflessione sul decorso temporale sono insediati anche al di fuori della musica?
Al problema di cosa sia la dimensione specifica del tempo musicale possiamo avvicinarci se interroghiamo il suono, l’elemento primo della musica, circa la sua modalità d’essere temporale, e cerchiamo di rispondere a questa domanda con l’aiuto della storia della riflessione sul suono, sulla base della storia della filosofia del tempo, al cui centro stanno Aristotele e Aristosseno, Agostino, Kant, Hegel e Husserl; ma qui non ce ne occuperemo.
Un confronto critico tra i diversi approcci filosofici che la storia ci offre potrebbe confermare la tesi, centrale nella mia concezione, che recita: il tempo del suono non si manifesta nel tempo (come se ci fosse tempo già prima, e indipendentemente da esso), ma come tempo (nel mentre che il suono lo pone). Il suono non necessita o non pretende tempo, nel senso che lo utilizza o lo riempie come se il tempo fosse dato in anticipo, ma fonda il tempo nel senso che esso stesso è tempo. Così anche il tempo musicale non è tempo in quanto musica, come se la musica fosse nel tempo, ma è la musica come tempo che si manifesta solo mediante, con, e nella musica. I suoni, le vibrazioni dell’aria prodotte da stimoli, non hanno bisogno di tempo, sono il risuonare del tempo, un costante iniziare, durare e finire in un infinitamente vario e variamente combinabile durare e valutare, articolare e stratificare, proporzionare e distruggere, strappare ed estendere, interrompere e ricominciare, comprimere ed ampliare e tutta l’infinita ricchezza di forme di moto degli stimoli sensoriali che può prodursi mentre parimenti pone il tempo.
Ripenso ora alla definizione che ho sviluppato ed esposto nel mio libro su “La musica e il bello”(4), e che necessita di una correzione. Essa suonava: la musica è un gioco con stimoli sensoriali nella forma di un gioco col tempo. La prima metà della definizione (la musica è un gioco con stimoli sensoriali) non è qui in discussione. Tutta la musica, per il fatto di essere suonata da un esecutore su uno strumento, è un gioco con stimoli acustici, con suoni, accordi, un gioco sonoro che in quanto gioco non ha altro scopo all’infuori del gioco, perché fa dell’esecutore e dell’ascoltatore soggetti attivi di questo gioco, e può realizzare il divenir-uno dell’io con il gioco della musica. In pari tempo il gioco sonoro è informato (eingestaltet) da un senso, identico ad esso in quanto formazione, un esser-formato ricco di senso, un senso giocoso. E in pari tempo l’elemento ricco di senso del gioco è colmato di significato, di contenuti, in particolare al livello della sfera emozionale, delle immagini, delle associazioni. È questo a render bella, in senso potenziato, la musica, poiché le molte cose che essa è in grado di esprimere in quanto realtà della vita e della sfera emotiva, non si manifestano qui come realtà, ma come gioco.
Però la seconda metà di quella definizione (…nella forma di un gioco col tempo) deve essere ponderata in nuova prospettiva. Infatti “col tempo” non si può giocare, poiché non c’è un tempo in sé. Così come il gioco della musica non gioca col gioco bensì, per esser gioco, gioca con qualcosa, con stimoli sensoriali, allo stesso modo il tempo può essere solo come un qualcosa, o in qualcosa, che non è esso stesso tempo, bensì manifesta il tempo, fa sorgere, progetta, crea il tempo, pone il tempo, lo fonda.
Secondo lo stato attuale della mia riflessione, sarebbe più corretto dunque se la definizione suonasse così: la musica è un gioco con stimoli sensoriali nella forma di una fondazione del tempo. Questo tempo fondato dalla musica, creato da essa, ha tutta una serie di proprietà.
(1) Il tempo fondato come musica, o c’è come musica concreta, o non c’è affatto. Aggiungo che il fatto che ci sia è indipendente dalla concretezza della musica concreta, dal caso singolo, da quella data opera e dalla sua funzione specifica, è indipendente dalla storia, dalle forme del pensiero che pensa il decorso, da elementi come metro, battuta, ritmo. Il tempo musicale nel suo aspetto di principio è il tempo che perviene alla presenza (Dasein) mediante una concreta musica, quale che essa sia.
(2) Il tempo fondato come musica, cioè come gioco con stimoli sensoriali, è – anche quando si manifesta in forme estemporanee, senza il sussidio della notazione – sempre composto, proprio nel senso letterale del verbo latino componere: posto insieme, una com-posizione di movimenti, un tessuto organizzato di percezioni sensibili, ciascuna delle quali ha una durata che fonda il tempo. La compositio degli stimoli sensoriali è parimenti una compositio di tempi, che forma un tutt’uno con essa. Questa frase non è rovesciabile: una compositio di tempi non può fungere da punto di partenza. Non si può comporre qualcosa che non c’è, neppure come realtà estetica.
(3) La compositio del tempo fondato come gioco con stimoli sensoriali è complessa in sommo grado: già in una singola voce o parte, e a maggior ragione in un tessuto di tali voci. Ogni singolo evento nella totalità degli eventi e ogni relazione tra di essi fondano il proprio tempo.
(4) Pertanto il tempo musicale in quanto realtà estetica non è cosa da cogliere per via razionale. E ciò non solo a causa della sua complessità e non solo in conseguenza della modificabilità dell’elemento musicale stabile in ciascuna sua realizzazione strumentale: al di là di tutto questo, il tempo non può essere isolato. Né l’analisi del tempo musicale cronometrica e matematica, né quella che lo visualizza in modo schematico hanno una realtà estetica. Nella realtà del farsi evento il tempo musicale si sottrae alla razionalità astraente; si nega all’approccio scientifico.
(5) Il tempo fondato come musica è oggettivo; non nel senso del tempo dell’orologio, che svanisce come dato nella comprensione di ciò che si fa evento. È oggettivo nel senso di una fattualità che viene prodotta dall’evento sensibile. Anch’essa viene concepita, ma precede ogni concezione e non svanisce in essa, bensì la fonda e vi rimane come alcunché di essenziale.
(6) Il tempo musicale viene sì inteso, ma non con dati numerici, misurazioni fisiche, o apparecchiature concettuali di tipo epistemologico. Viene inteso, piuttosto, nell’atto della percezione estetica: inteso dall’intelletto estetico. E nella sua oggettività e aconcettualità avvia l’identificazione estetica, cioè il processo del giocare-insieme del gioco degli stimoli di senso nella forma di un porre il tempo. L’io dell’esecutore-giocatore e dell’ascoltatore sprofonda nel gioco della musica come tempo, sì che ogni altra temporalità svanisce.
Se la realtà non è gioco, allora la musica come gioco svuota la realtà di quanto ha di reale. E se la realtà è tempo dell’orologio, allora la musica è una liberazione dal tempo dell’orologio che conduce in un altro tempo. Di fatto non esiste nulla oltre alla musica che abbia un tale potere liberatorio e de-realizzante. E se ripenso ora alla domanda di partenza – cos’è il tempo? –, a questo punto so che era stata posta in modo sbagliato in rapporto al tempo. Non si può chiedere qui cosa sia il tempo. Infatti il tempo musicale non c’è come tempo in genere o in sé, non prima o al di là della musica, bensì – cosa non razionalizzabile – solo come musica, e nient’altro.
Ma non è mia intenzione lasciare le cose così. Infatti ci eravamo chiesti quale fosse l’elemento di principio che caratterizza il tempo: e ce lo eravamo chiesti non solo per rendere accessibile al pensiero la sfera specifica del tempo musicale, ma fors’anche per conoscere, partendo da qui, cosa sia il tempo nella nostra vita.
La musica – così la nostra definizione – è un gioco con stimoli sensoriali nella forma di una fondazione del tempo. Questo è stato interpretato come de-realizzazione della realtà nel gioco e come liberazione dalla realtà del tempo cronometrico. Ma, rovesciando il discorso, non potrebbe la musica essere il paradigma stesso dell’atto di toglier di mezzo i concetti, che pur le sono stati attribuiti, di ‘derealizzazione’ e di ‘liberazione’? Non dovrebb’essere così? Toglier di mezzo la derealizzazione, ma non nel senso di trasportare la musica nella realtà della vita, come piacerebbe ad alcuni moderni. Infatti ciò non è possibile: la musica è sempre gioco. Nel campo visivo sta il toglier di mezzo la derealizzazione che si dà allorché la vita stessa si coglie e si muove in direzione della musica, nel giocoso del gioco, nella intima beatitudine della modalità d’essere del gioco, analoga alla musica. E toglier di mezzo la liberazione dal tempo non nel senso che si vorrebbe trasferire il tempo reale, quello dell’orologio, dentro la musica. Infatti il tempo reale non è nulla, e nel suo nulla viene inghiottito dal tempo musicale. Toglier di mezzo la liberazione dal tempo vale qui nel senso di una traslazione della modalità d’essere del tempo musicale nella realtà della vita mediante la sua traslazione nel porre mediante il soggetto, proprio come fa la musica allorché, per così dire in qualità di soggetto, pone il tempo. Il tempo c’è per l’io solo come tempo suo, fondato da lui, proprio come c’è tempo nella musica solo come il suo tempo, da essa fondato.
Così, la domanda di partenza – cos’è il tempo? – non era stata posta in modo sbagliato solo in merito alla musica, ma anche in relazione alla vita. Non ci si può interrogare su qualcosa che non c’è. Mentre io rifletto sulla musica e vorrei portare alla realtà la sua derealizzazione, imparo a creare il tempo come mio proprio tempo. La vita non dev’essere un sopportare il tempo, un’esistenza nel tempo, prigionia nel tempo, mosso dalla sua ruota, angoscia di fronte al passare irrevocabile, paura della fine del tempo, ma nel farsi evento, nell’autorealizzazione dell’io la vita può essere un creare, un porre, un fondare il tempo, in cui la somma delle creazioni crea anche una fine. Il tempo può essere il nostro avversario, un nemico: esso vuole assoggettarci. Noi possiamo opporci ad esso, allorché non ci assoggettiamo al suo volere, ma lo progettiamo a partire da noi stessi, come fa la musica.
Forse si può pensarla anche così, o, diciamo, forse questo è uno dei possibili indirizzi di pensiero. Io non lo so, e certo non lo saprò mai.
(Traduzione dal tedesco di Maurizio Giani)
NOTE(1) Si ricordi che Uhrzeit in tedesco significa correntemente ‘orario’; così è stato reso in qualche caso, più avanti.(2) I. Kant, Critica della ragion pura, trad. it. di G. Colli, Milano, Adelphi, 1976, pp. 90-92.(3) Cioè tempo stimato, legato alla concezione (Auffassung) che ne abbiamo.(4) H. H. Eggebrecht, Die Musik und das Schöne, München-Zürich, Piper, 1997.